martedì 23 settembre 2014

AUJOURD'HUI di Asianne Merisi




un paragraphe de votre temps 
un bourgeon de votre souffle 
Aujourd'hui, je voudrais être en mesure de profiter de petits sourires 
début de l'infini 
des souffles de vent 
de pluie dans ses mains 
Gagner la bataille sans 
le silence est d'absinthes 
Aujourd'hui, je tiens à sourire pour rien et pleurer pour la même raison 
sentir le soleil sur votre peau et avoir des frissons 
Aujourd'hui, je voudrais dire est en contradiction avec mon .... votre .... votre mot à dire .... 
Aujourd'hui, je souhaite que je pouvais sentir le cœur de framenti uniques 
eggi aujourd'hui ..... aujourd'hui n'est pas hier, pas demain aujourd'hui .....


LA BALKA DELLA SALVEZZA di Andrea Lagrein



Le fiamme del camino crepitavano vivaci. Il tono della sua voce era basso e nostalgico, quasi non volesse disturbare i lontani ricordi. Gli occhi erano velati di malinconia. Carlo mi raccontava la sua storia venuta dal passato, come fosse una confidenza, come se ancora si trovasse là.
Ci dissero che era una scampagnata, una vacanza. Vacca boia, dopo l'Albania pensavamo che l'inferno fosse alle spalle. E noi stupidi ancora a credergli! Ma non potevamo fare altrimenti, così salimmo sui treni e via, che la grande Russia ci aspettava. Cristo, doveva essere solo una scampagnata, dovevamo solo essere di appoggio ai toni che, a sentir loro, avrebbero presto preso Stalingrado e ci avrebbero portato donne e vodka a volontà.
Non era passato che un anno da quando eravamo tornati dall'Albania. Di notte mi svegliavo sognando ancora il fango e la neve dei Guri i Copit. Avevo ancora davanti agli occhi quel dannato bersagliere, le nostra urla, i nostri avvertimenti di non passare sul ponte che avevamo ricoperto di mine. Era come se fossi ancora lì, mentre lo vedevo saltare in aria e andare in mille pezzi, gambe, braccia, testa, tutto a brandelli, puzza di carne bruciata e sangue ovunque. Mi svegliavo e mi veniva il voltastomaco. E quei geni giù a Roma che parlavano di scampagnata! Vacca puttana, che ci andassero loro in Russia, con le loro belle divise da parata, le loro feste, le loro bottiglie di champagne e le loro puttane profumate. Che io, la scampagnata, avrei preferita farla nei prati del mio paese, con la Nina, fra le spighe di grano maturo.
Invece ci fecero salire sulla tradotta e via, in giro per l'Europa. Passammo la Germania, la Polonia e infine in Ucraina. Da qui con i camion fino alla nostra destinazione. Vacca boia, la nostra scampagnata! Ero con i miei compari della 45 compagnia fucilieri alpini del battaglione Morbegno. Io, che dal paese le montagne le vedevo solo in lontananza quando il cielo era terso! C'eravamo noi reduci dall'Albania, oltre alle nuove burbe tutte eccitate per la nuova avventura. Avventura! Avventura dei miei coglioni! Al primo colpo di mortaio se la sarebbero subito fatta addosso, come tutti noi, del resto.
Ci posizionammo lungo il Don. Gesù, in vita mia non avevo mai visto una bestia del genere! Noi che al paese, se volevamo bagnarci le chiappe, si andava al canale Villoresi o tutt'al più giù al Seveso. Vedere un fiume del genere era per noi uno spettacolo. Se non ci fossero stati i rossi dall'altra parte, si sarebbe potuto fare delle pescate della Madonna, vacca boia! E invece giù a scavare trincee, posizionare mortai e mitragliatrici e passare il tempo a grattarsi per i pidocchi e le pulci. Comunque all'inizio fu tutto tranquillo. Tanto i toni stavano per prendere Stalingrado, continuavano a ripeterci.
E invece quei nazi del cazzo si fecero sorprendere dai comunisti e tutto il fronte crollò. Noi ci trovammo così in mezzo a una pioggia di bombe e merda, di katiusce e mitragliate, roba da pisciarsi addosso dalla paura. Altro che scampagnata, Dio bono!
Poi arrivò l'inverno, che ci congelò anche i peli del culo. Non ho mai visto un gelo del genere. E neve, neve, neve e ancora neve. Per i nostri grandi generali a Roma, noi si doveva fare una bella scampagnata. E come tali ci avevano vestito. Cristo, il freddo ti entrava dappertutto e non ti restava altro che stringerti al commilitone più vicino per cercare un po di calore. Gran bella scampagnata per davvero. Che poi io, come tutti del resto, ne avremmo fatto volentieri a meno di tutta questa guerra di merda. Sarei rimasto a Cesano, a fare quel che sapevo fare, cioè il mobiliere, mentre al sabato si andava per i campi insieme a papà a mietere il grano, e alla sera giù in locanda per un bicchiere di barbera e una bella partita a scopone. E invece ci avevano fatto credere di fondare un impero e allora via, armarsi e partire, per la gloria del re, della patria e del duce. Che si fottano tutti quanti, adesso, mentre avevo le palle congelate da questo fottutissimo inverno, distante un'infinità da casa.
La situazione divenne insostenibile. Iniziò a circolare la voce che la grande e mitica Julia era stata spazzata via, dopo aver resistito eroicamente. Le altre divisioni di fanteria se l'erano squagliata già da un pezzo. E così anche i toni, se l'erano già date a gambe. Arrivò l'ordine di ritirarsi. Una benedizione. Almeno pensavamo all'inizio. Ma l'inferno doveva ancora iniziare!
Tu non puoi capire, Andrea, cosa vuol dire marciare con quaranta gradi sotto zero mentre i russi ti sparano dappertutto e devi pure combattere per aprirti un varco per andare avanti, andare oltre, inoltrarsi sempre di più in quell'inferno bianco, inferno di ghiaccio. Che poi, a dirla tutta, i rossi potevano anche evitare di spararci addosso. Ci pensava già l'inverno a farci a pezzi. Camminavo, camminavo, camminavo ancora come un ebete, ormai non capendo più nulla e non facendo più caso ai compagni che crollavano a terra, esausti, lasciandosi semplicemente morire congelati. Vacca boia, quei furboni di Roma pensavano veramente a una scampagnata e ci avevano dato divise estive. Mettiti tu una divisa estiva con meno quaranta sotto zero! E poi dimmi se non ti verrebbe voglia di infilargli i loro fasci littori del cazzo su per il culo!
Era tardo pomeriggio di non so più quale giorno di gennaio. So solo che non ce la facevo più. Semplicemente non riuscivo più ad andare avanti. Avevo perso la colonna in marcia. Ero solo. E' finita, Dio bon! pensai. Decisi di sdraiarmi e aspettare di morire. Poi sentii un paio di colpi di fucile. Non sapevo da dove provenivano, ma l'istinto di sopravvivenza mi fece correre verso una balka. Mi gettai dentro per ripararmi e in fondo all'avvallamento vidi un'isba da cui usciva del fumo dal comignolo. La mia unica speranza di salvezza!
Iniziai a correre, correre, correre. Inciampando, cadendo, rotolando, per poi rialzarmi e tornare a correre, terrorizzato dall'aver solo pensato di lasciarmi morire in quell'immensità di freddo e neve. Giunsi alla porta. Ero pronto a tutto. Tirai fuori la mia rivoltella e impugnai anche l'unica bomba a mano che mi era rimasta. Ero pronto ad ammazzare pur di potermi sdraiare a fianco di un camino acceso! Sfondai la porta con un calcio. Entrai. Ma non ci fu bisogno di sparare alcun colpo.
All'interno c'era solo una ragazza che avrà avuto più o meno la mia eta, intorno ai venticinque. Mi guardò e mi sorrise. "Italienish?" domandò goffamente. Feci un gesto affermativo con il capo. Lei non disse nulla. Ma si avvicinò alla credenza e tirò fuori del pane secco e una rapa mezza congelata. Mi indicò di sedermi accanto al fuoco e mi porse quel poco che aveva. Mi vennero le lacrime agli occhi nel vedere tale generosità, nel trovare quel po di umanità in mezzo a tanta e tale barbarie. Ma avevo troppa fame e freddo per indugiare oltre. Mi sedetti accanto al fuoco e iniziai a divorare quel povero pasto. Dopo, tutta la stanchezza di quei giorni venne fuori, e caddi letteralmente addormentato.
Mi svegliai che era notte fonda. Mi svegliai perché un paio di mani mi stavano toccando. In realtà mi stavano accarezzando! Mi svegliai di soprassalto pronto a combattere per la mia sopravvivenza. Invece mi ritrovai steso a terra, svestito, accanto al fuoco, mentre gli stracci che indossavo erano appesi a scaldarsi sul camino, avvolto da una pesante coperta di lana, con quella ragazza sconosciuta avvinghiata a me.
Non dicemmo niente. Non ce n'era bisogno. Furono i nostri corpi a ballare insieme il canto della vita. La mia mano scivolò istintivamente fra le sue cosce. Il tepore delle sue carni risvegliò l 'uomo che c'era in me. Infilai due dita nella sua fica, già umida e fremente. Lei mi baciò. Io la baciai. Poi le montai sopra. La penetrai più e più volte. Il tempo parve fermarsi. L'orrore della guerra si dileguò. Finché stanchi ed esausti ci addormentammo abbracciati, stretti l'una all'altro.
Al mattino mi svegliai di buon ora. Onestamente non volevo più abbandonare quell'isba. Che si fottano tutti! pensai mentre lentamente riaprivo gli occhi. Che si facciano da soli il loro impero. A me non importa nulla. Ma fuori dalla capanna iniziai a sentire un vociare sempre più vicino. Mi rivestii velocemente, subito imitato dalla mia salvatrice. Ben presto capii che si trattava di soldati italiani. Era un plotone della 53 compagnia del Vestone. Avevano combattuto tutta notte e ora si stavano riaggregando al resto del battaglione. Il mio senso del dovere mi spinse dal desistere dai miei propositi. In fondo erano miei compagni. E tutti insieme si stava cercando di uscire da quell'inferno. Sicché mi unii a loro.
Prima di andarmene, la ragazza mi allungò un involucro con dentro due patate e una crosta di pane. La baciai dolcemente, in un ultimo gesto di ringraziamento. E poi nuovamente mi gettai in quell'inferno di ghiaccio.
Carlo fece una pausa, come se il ricordare quei giorni lo avesse nuovamente stremato. Vedi, Andrea, alla fine ne sono uscito vivo, ma se non fosse stato per quella ragazza, di cui non ho mai saputo il nome, sarei sicuramente morto su quella balka, congelato da quel dannato freddo!
Carlo chiuse gli occhi, come se volesse ancora sognare quella donna. Lasciai mio zio sulla poltrona davanti al fuoco crepitante. Andai in cucina a farmi una birra. Non volevo disturbare i suoi teneri ricordi.
Era giusto che ora rimanesse solo con una ragazza di cui non seppe mai il nome!

NASCOSTI NEL NULLA di Allie Walker




Accoltellami il dolore, 
uccidimi la sofferenza, 
qui, nel mio addome. 

Grido, ma non sono in guerra.
Piango ancora, non sono morta.

Non riesco a vedere le mani,
ma è straziante quel coltello
che stai torcendo dentro,
quello che smuove il terrore,
per la vita o per la morte.

Intanto fuori il niente,
nemmeno il gioco,
nessuna guerra.

E’ una lotta per la vita,
una battaglia contro la morte,
ma non voglio vincere.

Affondo le mani sui tagli
e con le dita mi raggiungo la bocca
a disegnarmi un sorriso.
E se questo era un gioco
o una guerra, non so,
le lacrime silenti
comunque sanguinano.

Un ultimo respiro
e poi un sussurro:
maledetta, hai vinto.

TI MANDO UN PENSIERO di Sara Zanchetta




Ti mando un pensiero un po' sdolcinato, 
una carezza e un bacio bagnato, 
un pensiero cattivo, 
un ricordo annebbiato,
il mio profumo, un urlo nel cuscino, abbandonato..soffocato..
un succo caldo lentamente assaporato,
l'ombra scura sul mio viso,
ti lascio un dubbio, una domanda.
Ti mando un ricordo,
E l'amore mai consumato tra il fieno,
Ti mando un pensiero,
il tuo soffio caldo sul mio seno.

AFORISMA di Sereno Notturno



Si viaggia talmente vicini da aver presagio che tutto ciò sia dovuto.
Poi qualcuno scegliendo sempre la stessa strada, si perde nell'abitudine.

ANIMA PERSA di Allie Walker




Ebbene, 
sento una maschera buffa 
a coprire l’anima 
e mi porta al patibolo
ogni santo giorno.
Dunque. è inevitabile
diventare il giullare
dei doppi sensi.

Rido di me stessa,
con la mia bocca sghemba,
e il cuore rotto tra le mani
cianciando del dolore.
Le parole, poi, svaniscono
davanti a un pubblico sbeffeggiante,
-all’istante-
e sono solo l’ennesimo buffone
che chiede al suo Signore
di portarsi via la sofferenza.

Come posso chiedere
a un Dio che non amo
di portar via lo strazio?
Come possono i miei occhi
ignorare la leggerezza
-con invidia-
che colgo negli occhi
della folla che mi osserva?

E allora –meglio- imploro,
sovrano dei miei tempi,
prendi questo corpo
vestito di campanelli
inutilmente risonanti,
esorcizza il suono del grottesco
per lasciar posto
al fragore di una Vita

TRAMA EMOTIVA di Sereno Notturno




Riuscire ad esser trama
quella che s'intreccia 
nel duro tessuto
che si ciba d'emozione
vissuta in modo spericolato.
Quella che ti fa capire...
in fondo nulla è sbagliato
se porta al sorriso.
Quello lo devi capire
perché non è sempre
un sorriso facile
mai di circostanza
mai facile
mai fatto perché dovuto
mai facile.
La vita è piena di falsi sorrisi
di boriosità inconsistenti
d'inganni fatti col cuore di plastica
d'emozioni forgiate su calchi preformati.
Così solo per portarsi alla pari di altri
senza avere ne consistenza ne anima
solo desiderio di distruzione
perché così lo impone il forte sul debole.
Quest'ultimo ascolterà si farà trascinare
nella bolgia di un'apparenza
vivrà a stento ogni situazione
per poi essere svuotato
come un palloncino gonfiato ad elio
volando nel cielo si perderà tra le nuvole
mano mano sgonfiandosi per poi sparire.

SENSAZIONI CHE SERVONO di Sereno Notturno




Dimmi come vivi
gli squarci di solitudine
che affiorano in pelle
senza affondo.

Dimmi come ti senti
dentro quelle maree
fatte di silenzi
naufragati in parole.

Dimmi dove vuoi essere
tra mille tormenti
che si celano
nella notte buia.

Dimmi perché
deve esserci timore
di violare
un'emozione crescente.

CARNE TREMULA di Sereno Notturno



Potrei ascoltarmi per ore, sarei monotono con me stesso.
Dovrei vibrare di eterno sorriso indecente
ma farei la parte del folle.
Giocherei volentieri con le mie dita
sino ad intrufolarle nel desiderio altrui
mi guarderesti con elevata indecenza.
Allora sbircio in silenzio
il lento schiudersi delle cosce
aspettando tu chini il capo
alla ricerca dell'estasi animale.

DESIDERIO NON RILEVATO di Asianne Merisi



Sai nutrire il mio essere,con il cibo della fantasia.
assaporami sulla tua pelle, 
sulla tua bocca come spigoli che graffiano l'anima
possiedimi stanotte come la luna si concede al sole
amandosi... perpetuamente
Nel sussurro di una notte, ti appartengo..
un desiderio non rivelato
sottile la distanza tra carne e volontà
Chi sei? Davvero non lo so.
Che quando mai credevo,mai pensavo
Dimmi chi sei,
Vienimi sulle labbra, Vienimi sulla pelle.
Spalma ancora il tuo sguardo
su questa mia ultima
screanzata passione che non vuole morire.
Abbiamo fame d'eterno.
Noi................ pazzi.

LEGAMI di Sereno Notturno



Cosa porteresti in dono, di così sublime da non scordarlo più.
Forse l'intima possessione, quella che si scalda al precipitare dell'incontro e ne fa gioia intrigante tra pelle e desiderio.
Perché sei pelle e desiderio, intimità e approccio.

SENZA CONFINI di Asianne Merisi




Rovescia le ore,
sopra a questo letto e fruga nell'involucro del tempo
se tante volte qualche minuto in più
fosse rimasto dentro
perchè tu non mi basti mai.
Non fermarti ti supplico,
non togliermi piacevoli sensazioni.
Sei un onda di emozioni che travolge
sei radice d'albero che dona frutti di passione
Voglio averti,
per unirmi ogni secondo a te,
attraverso confusi sensi, e desiderio senza pudore.
Avvolgimi nel tuo gioco di passioni
Criticami e poi assecondami,
Feriscimi e poi stupiscimi, è cosi facile sottomettermi
Cercami ,sopprimi la ragione che non serve.
Toccami,
prendimi, è Non trovare più la strada,
non tornare indietro
Amami.

INVITO RISERVATO di Giuseppe Balsamo





Non sono un uomo da incontri al bar, o almeno, per un periodo della mia vita lo sono stato, ma non più.
Ora quando entro in un locale, lo faccio per un caffè, oppure per bere qualcosa di forte, quando le quattro mura di casa mi stanno troppo strette e mi manca l’aria.
Ovvio mi guardo in giro, ma mi limito a quello; occhiate fugaci che sono legate più al mio istinto che alla mia reale volontà.
Non appena me ne rendo conto me ne pento immediatamente, mi sento ridicolo, così distolgo lo sguardo e ricaccio in gola i miei stinti.
Quando vedo i miei coetanei approcciare una bella femmina al bar, per strada o chissà dove, mi sento a disagio per loro. Non so se sia corretto questo mio atteggiamento, semplicemente ne prendo atto, consapevole che mi costringe a serate solitarie davanti al bicchiere, pieno per metà di alcool e per l’altra dei miei pensieri.
Ormai sono tre giorni che dopo il lavoro non riesco a rimanere in casa, così faccio il giro dei locali che conosco. In solitaria ed in macchina, la moto è troppo impegnativa mi distrae da me stesso, così preferisco l’intimità dell’abitacolo dell’auto.
Devo rassegnarmi all’idea che mi sento meno solo con i miei pensieri piuttosto che nei bar che frequento. Continuo però ad andarci perché non si sa mai, perché qualcosa devo fare, perché è inutile crogiolarmi nelle mie paranoie senza far nulla.
I miei pensieri mi rendono cattivo, rabbioso, devo esserlo ne ho bisogno. Ad alcune cose non ci si abitua mai, neanche dopo averle viste per anni. La crudeltà, la rabbia e la violenza degli uomini, specie quando è rivolta verso i più deboli, è il mio pasto quotidiano. Sono consapevole di essere diverso da costoro, ma allo stesso tempo devo mettermi sul loro stesso piano, finchè ne ho le forze. L’adrenalina che si sprigiona mi serve, mi rende attento, mi rende vigile ne ho bisogno per superare le giornate ora per ora.
L’unico posto dove parlo con qualcuno è l’ultimo locale di quello che sta diventando il mio abituale giro notturno.
Potrei arrivarci prima, ma quella sosta la riservo solo quando non ce la faccio più a restare in silenzio e senza che nessuno mi rivolga parola; è il mio ultimo approdo, il mio porto sicuro, dove riesco finalmente a decidere che la notte è finita ed è arrivato il momento di tornare a casa, perché altrimenti il giorno dopo sarò un fantasma e non me lo posso permettere.
Non è il locale a determinare la differenza, piuttosto chi ci lavora dentro.
Non so come faccia ad avere la volontà di sorridermi dopo tutte quelle ore di lavoro dietro il bancone, dopo tutte le stronzate degli ubriachi che le passano davanti sera dopo sera, notte dopo notte.
Sta di fatto che una parola per me ce l’ha sempre, un sorriso anche, quindi è lì che termino le mie notti.
Quando siamo lì dentro lei evita di chiamarmi per nome, limitandosi a qualche parola. A dire il vero anche quando siamo fuori e da soli si rivolge a me con il termine “sbirro”, oppure “Leanza”; lo fa in maniera tutta sua, rendendo la cosa piacevole e complice.
Ho talmente insistito e litigato con Bea, la padrona del locale, che alla fine l’ha levata dai tavoli per metterla al bar, a lei non ho mai detto niente di sta cosa, ma so benissimo che ne è al corrente.
C’è un altro motivo per cui queste sere passo da lei all’orario di chiusura, per poi accompagnarla a casa.
Dopo che tre giorni fa abbiamo trovato il cadavere di quel ragazzino sono cominciati gli SMS, non è la prima volta che mi capita una cosa del genere, ma stavolta sento che è diverso, sento il freddo risalire dalla spina dorsale e so che mi devo preoccupare. Dapprima si limitavano al solito:”Sbirro fatti i cazzi tuoi”, poi sono diventati di tenore diverso:”Sbirro te la ammazziamo la tua troia”.
Anche di questo lei non sa nulla, anche se credo si sia accorta che nel mio sguardo c’è qualcosa di strano.
Sono le tre e tra un’ora stacca, sono sul solito sgabello all’angolo del bancone. Masha, senza che le dicessi niente, dopo avermi sorriso, mi porta un’acqua tonica con del limone, al posto della solita birra.
Nel poggiare il bicchiere mi lancia un’occhiata di rimprovero, cosa che non fa quasi mai. C’è tutto in quell’occhiata: i troppo bicchieri bevuto prima di arrivare, le troppe sigarette, la mia barba incolta, i miei occhi gonfi, il sonno perso, la mia rabbia e la sua preoccupazione.
Non so fare altro che borbottare un:”Merda…” e fare un sorrisetto stupido.
Quando esco dal night, per aspettarla fuori, sento il suo sguardo sulla schiena, l’aria fredda mi rigenera per qualche istante, ma le ossa mi fanno male ed ho sonno.
“Sei uno straccio sbirro, se continui così non arrivi ai cinquanta”. Mi sorprende alla schiena, sorride ma so che è un sorriso triste, mi prende sotto braccio e ci avviamo verso casa sua.
“Va tutto bene è solo un momento”, cerco di darmi un contegno, mi piace quando mi prende sotto braccio, lo fa spesso ultimamente, specie quando la accompagno a casa.
“Stanotte ti fermi da me, hai bisogno di dormire”. Non replico e poi di andare a casa da solo non ne ho voglia, domattina sarà più vicino al lavoro.
Dall’ultima volta che son stato a casa sua è passato un bel po’. Ho sempre evitato, pur avendone voglia, in quella occasione era mattina, ricordo di averla salutata velocemente prima di partire, trovandola a letto con addosso una delle mie magliette. In quel periodo ho dormito spesso da lei, ho un ricordo piacevole di quei giorni, forse anche lei, non gliel’ho mai chiesto, non ne abbiamo più parlato, anche se prima o poi mi piacerebbe affrontare questo argomento.
Devo essere parecchio stanco se mi si accumulano dentro tutti questi pensieri, uno sull’altro; si sovrappongono come una matassa di fili elettrici ingarbugliati, dai colori più disparati.
Come in quei giorni passati mi lascia usare il bagno per primo, rifugiandosi in camera da letto. Sto attento ad alzare la tavoletta e mi spoglio, restando a petto nudo. Mi guardo allo specchio, sono uno schifo: i capelli bianchi cominciano ad essere più di quelli scuri, le mie occhiaie sono quasi violacee.
“Quanto sei lento Leanza, cosa stai pensando?”
Riflessa allo specchio c’è anche Masha, sono talmente sovrappensiero che non l’ho sentita entrare, indossa la mia maglietta.
“Quella è mia”, le sorrido alludendo alla t-shirt che le sta un po’ abbondante, coprendole appena le mutandine.
“Devo levarla?”, fa per toglierla e restare nuda ma la blocco, sorridendo. Mi annusa e fa una smorfia teatrale di disgusto:”Hai bisogno di una doccia sbirro”. Allunga le mani verso di me e mi slaccia la cintura ed i bottoni dei jeans:”Ora lascia che mi occupi un po’ di te”.
Non ho la forza, né la voglia di replicare. Come un‘automa, tenendo i miei occhi stanchi fissi nei suoi, mi chino a levare le scarpe, per poi denudarmi completamente. Non è la prima volta che mi vede senza abiti, però si gira lo stesso, forse per restituirmi un minimo di intimità, oppure semplicemente per aprire il rubinetto della doccia.
Lo scroscio è invitante, guardandola con gratitudine mi infilo sotto, chiudo gli occhio e sollevo il viso.
Mentre mi godo l’acqua bollente che lenisce la mia stanchezza lei si unisce a me: “Fatti più in là, egoista!”. Mi fa spostare appena, per poi cominciare ad insaponarmi con una spugna. Mi appoggio alle mattonelle fredde, mentre le sue mani percorrono la mia gola, il mio petto, il mio addome, spingendosi sul mio sesso e sulle cosce.
Non oso proferir parola, voglio solo lasciarmi andare. Sono immobile se non fosse per il mio diaframma impazzito ed il mio respiro affannato. Sono eccitato, le sue mani indugiano sul membro ormai duro, la sue labbra bagnate assaggiano i miei capezzoli delicatamente, risalendo sul collo.
Non resisto oltre e le prendo il capo con entrambe le mani, infilo le dita fra i suoi capelli dorati e le faccio prendere il mio posto addossata alle piastrelle, soffocandola con un bacio.
Non avverto nemmeno più l’acqua su di me, solo il suo corpo caldo e bagnato contro il mio, il suo seno ed i capezzoli turgidi che premono sul mio petto. Le sollevo una coscia e la penetro, costringendola in punta di piedi.
Trasale per il piacere di quel primo affondo, i suoi denti incidono l’incavo della mia spalla ed un gemito strozzato le esce dalle labbra.
Si avvinghia a me, piantandomi le dita sulla schiena e sulle natiche, quasi a trattenermi dentro.
Ma io non voglio fuggire, voglio restare e rimanere dentro di lei. Voglio sentire il sapore dei suoi baci mentre i colpi si fanno profondi ed istintivi, quasi cattivi e sempre più incessanti.
Il mio piacere cresce dentro di lei, pulsa impazzito fino a non poterne più; lei mi abbraccia e mi segue in quel territorio di estasi e passione, lasciandosi andare all’istinto.
Lei mie labbra non si staccando dalle sue nemmeno all’arrivo dell’orgasmo, furioso e travolgente come lo tenessi da troppo. Continuo e continuo, avvinghiato a lei anche dopo esserle venuto dentro, sentendola gemere di piacere nella mia bocca.
Restiamo abbracciati sotto l’acqua calda, con gli occhi chiusi, recuperando il respiro. I nostri baci diventano troppi per poterli contare, come le gocce che martellano la nostra pelle.
Esco per primo dalla doccia. Voglio provvedere a lei, asciugarla e frizionarle il corpo per poi vederla di nuovo indossare la mia maglietta, voglio metterla a letto.
Starò disteso e lei si sistemerà fra le mia braccia, accompagnandomi nelle poche ore di sonno che mi separano dal giorno.
E’ tanto che non faccio una doccia con una donna, forse stanotte dormirò.

domenica 21 settembre 2014

PRELUDIO di Sereno Notturno



Divorato dalle essenze di quel corpo che riempie gli attimi, seguo le tenere linee dei fianchi, sino a stringerne la carne.
Rimani così nuda di spalle, noncurante della presenza che assottiglia i passi. Senti il respiro vicino all'orecchio, tutt'intorno quel buio preda della complicità.
Quello è l'attimo
Prima dell'affondo.
Nelle parole di cristallo, che senti, vivi e che lasciano quel sano retrogusto d'orgasmo.

FUMO TRA LE LABBRA. E' UN FINTO VIVERE QUANDO SI STA MORENDO di Allie Walker




"Sei stata creata per essere la donna perfetta per un uomo. Non puoi essere lo scarto dei capricci di ognuno di loro, molti sono solo impostori. Alla fine sarai solo una dolce e docile preda per loro.” 
Le sue parole riecheggiavano nei sogni di Clio, come sempre. E ogni volta chi le parlava aveva avuto ragione. Come faceva a sapere? Come faceva a capire che sceglieva sempre in modo sbagliato? Lui non era reale. Era solo uno spirito, un demone informe che le appariva nei sogni, nel sonno.
Guardava profondamente in lei. Ed era come se la notte succhiasse dalla sua anima la vita per capirne il senso e il mattino, mentre albeggiava, gliela ritornava, scomparendo dolcemente. Non scomparivano, assieme a lui, le sue parole che, nelle ore di veglia, tornavano a martellarle le tempie. Quelle parole erano sempre con lei.
Una notte, le parlò del suo cuore. Le disse che amava troppo, profondamente, troppo spesso e troppo per quel mondo terreno. Lui la tormentava… le diceva continuamente che poteva vestirsi come le piaceva, mettersi ogni volta una maschera: sottomessa, frivola, un’amante perversa, una femmina affascinante; non sarebbe cambiato il motivo per cui lo faceva. Erano tutti meccanismi per raccogliere l’amore che desiderava, come se fosse stato l’ossigeno che la teneva in vita.
"La ragione per cui desideri così tanto amore da tutti quelli che incontri, è perché nessun amore ti è mai stato vicino a sufficienza. Non disperare. Quello che ti serve è solo attendere. Devi superare la superficialità per trovare l’Amore.”
Clio si svegliò e cercò di sollevare le braccia per toccarlo, le sembrò che fosse lì, con tutto il suo peso, ma non trovò nulla a cui aggrapparsi.
Si sentì cruda e fragile, quel mattino, mentre si vestì rendendosi conto che quel demonio aveva riconosciuto la paura, quella indossava come una seconda pelle. La paura di non essere amata abbastanza, la paura di non sapersi tenere gli uomini, la paura di dover amare troppo e avere nulla in cambio. Aveva cercato di mascherare quella paura nei sorrisi, di giorno, e nei baci che elargiva ai suoi occasionali accompagnatori. Perché dopo aver sofferto per amore, più volte, non cercava più l’uomo della sua vita, ma passava da uno all’altro senza ferirsi.
E intanto cercava di scacciare quel demone con la luce, sperava di liberarsene, bramava poter pensare liberamente e chiudere gli occhi per dormire in maniera serena. Eppure, al buio, quel demone tornò sempre. Era come se chiudendo gli occhi, solo pensando di sognare, o non sognare affatto, lei lo evocasse.
E lui lo sapeva. Sapeva che di notte, lo avrebbe chiamato pur non volendolo, perché in fondo desiderava averlo vicino. Era pur sempre una presenza costante. Il demone vedeva le lacrime silenziose che lei liberava quando era al buio e il cuscino che afferrava tra le braccia, ogni notte, prima di addormentarsi, in quella solitudine terribile che lei proteggeva in maniera feroce.
Lei ascoltava la cadenza del proprio respiro, il ritmo del proprio cuore ed era la sola melodia che le teneva compagnia, Ma era così assordante! Nel sonno si lasciava avvolgere dalle braccia di quell’oscura presenza e ascoltava il sussurro di quelle parole che, di giorno, si rifiutava di comprendere. E continuava ad amare persone sbagliate.
Scrivere era l’unica cosa che non la faceva sentire sola. Macinava pensieri e li traferiva sui fogli di word. Inventava storie, eroine, situazioni che avrebbe voluto vivere, amori impossibili. Sognava. Sognava di continuo, a occhi aperti, rileggendosi.
Quando l’editore la invitò a una presentazione di una collega, si disse che era venuto il momento di uscire allo scoperto. Perché continuare a rifugiarsi dietro uno pseudonimo? Per la paura di essere riconosciuta come la scrittrice di romanzi erotici? Additata perché scriveva “porcherie”?
“Prima che sia troppo tardi, voglio prendermi la soddisfazione di vedere la faccia allibita dei miei concittadini…” rimuginò fra sé. E quella serata poteva essere lo scenario adatto per fare il primo passo verso il pubblico. Era sicura che sarebbero stati presenti anche tanti amici e conoscenti in comune con la collega e amica scrittrice. Inoltre, un evento letterario, nella capitale, di una scrittrice che stava in cima alle vendite nazionali dell’ultimo periodo, era un appuntamento a cui i tanti nomi noti dell’editoria non avrebbero mai rinunciato. Forse si sarebbe presentata l’occasione giusta anche per lei, quella che aveva sempre sognato: diventare una scrittrice famosa.
Si preparò con cura, scegliendo l’abito giusto fra i tanti che aveva nell’armadio. Optò per un abito corto al ginocchio, con le spalline sottili e una scollatura vertiginosa che esaltava lo splendido decolté. Ai piedi un paio di scarpe con il tacco vertiginoso. I capelli raccolti, per il caldo, in uno chignon morbido con qualche ricciolo ribelle che le incorniciava il viso, gli occhi truccati alla perfezione, le labbra dipinte di un rosso rubino. Si specchiò un’ultima volta prima di uscire e si lanciò un bacio, apprezzando la sua immagine riflessa nel grande specchio, che faceva sfoggio di sé, nell’entrata del suo appartamento, tanto quanto la proprietaria. Il caldo umido della sera l’avvolse, ma per poco. Il tragitto che doveva percorrere per arrivare all’auto era breve. Appena salì, infilò la chiave, accese il climatizzatore e poi una sigaretta. Partì rombando verso un destino che lei ancora non conosceva, ma quella serata avrebbe segnato in maniera radicale la sua vita futura.
Arrivò al locale in perfetto orario. L’amica scrittrice salutava tutti con un affabile sorriso, che sembrava avesse stampato in viso. La sala era affollata e, tra i tanti volti sconosciuti, notò alcuni visi di amici. La musica in sottofondo si confondeva con il brusio della gente, un’accoppiata che non riuscì ad apprezzare. Appena l’editore la vide agitò una mano e le corse incontro. Clio si lasciò abbracciare e baciare, ma l’imbarazzo le stava salendo per il corpo in una scia di calore, nonostante l’ambiente fosse climatizzato in maniera eccelsa. Guido, l’editore, la prese per mano e la trascinò verso un capannello di persone. Le presentò alcuni suoi amici e tra questi anche un signore sulla quarantina, particolarmente affascinante: Tiberio. Non era bello, ma i suoi lineamenti erano eleganti e sottolineati da un pizzetto disegnato ad arte. Con un sorriso appena accennato, si chinò appena a prenderle la mano e sfiorarla con un finto bacio.
“Un uomo d’altri tempi…” pensò Clio.
Lo osservò. Era tutto in tiro nel suo abito scuro. Un abito che “sapeva” di sartoria d’alta classe e aveva l’odore del Dio denaro. Lei pensò che fosse eccessivo per un pomeriggio tra editori, scrittori e curiosi. Pensò di snobbarlo, alla stessa maniera che faceva lui ostentando uno status di privilegiato, ma non ci riuscì. Si ritrovò più volte a scrutarlo di sottecchi mentre era intento a parlare con alcune persone. Guido le teneva un braccio sulle spalle e la stringeva a sé in maniera eccessiva. Apprezzò quel gesto perché, così facendo, le donava un senso di protezione in mezzo a tutta quella gente.
Qualcuno parlò da un microfono e tutti si apprestarono a prendere posto sulle sedie. La musica cessò e la presentazione ebbe inizio. Tiberio prese posto accanto a Clio e Guido sulla sedia a fianco. Lei cercò di prestare attenzione a quel che si raccontava, provò a seguire il filo del discorso e le domande che un uomo faceva all’amica scrittrice, ma si sentì gli occhi di Tiberio addosso. Per tutto il tempo. Si perse. Fantasticò di essere tra le sue mani, di essere vicino alla sua pelle a inspirare il suo odore. Se le sentiva sul corpo quelle mani e il profumo di colonia che le arrivava alle narici la distraeva in maniera incredibile. Fino a che tutto finì - le sembrò che tutto si fosse svolto in pochissimi minuti - e gli applausi la colsero impreparata.
Tutti si alzarono in piedi e lei rimase immobile sulla sedia ancora immersa in fantasie carnali. Tiberio le sfiorò un braccio e lei rabbrividì, poi alzò gli occhi a guardarlo e lui le sorrise. A quel punto si alzò e l’uomo, un po’ più alto di lei, si chinò verso Clio e le sussurrò all’orecchio: “Sei mia ospite a cena…”
E sorrise di nuovo, lui, questa volta con un’espressione sorniona, di quelle bastarde. Quell’espressione che parlava senza dire nulla, che diceva “non aspetti altro che io ti scopi”. Quella fu l’impressione di Clio e un brivido le percorse la schiena.
Cominciò in quella maniera la relazione tra Tiberio e Clio. Dopo la cena lei accettò di finire la serata in una camera d’albergo. Era consapevole che la loro relazione sarebbe durata poco, l’anello all’anulare sinistro di lui la diceva lunga. Sarebbe stata una scopata, una notte di sesso e forse ne sarebbero seguite altre. Ma più di quello Clio non poteva e doveva pretendere e andò in quell’albergo perché lo desiderava. Quello che Clio non si aspettava, era che si sarebbe innamorata follemente di quell’uomo.
E ogni volta che si incontravano era lussuria allo stato puro. Le dita di lui correvano lungo la schiena di lei, anticipando la scia delle labbra e della lingua. Non servivano parole e nessuno dei due intendeva riempire il silenzio. Parlava molto di più di tante parole, il silenzio, le mani di lui si stringevano sui polsi di lei e, quando si addolciva, era protettivo, la accarezzava svegliando un fuoco che premeva sottopelle e scorreva assieme al sangue nelle vene. Infine, quando tutto era finito, quando entrambi aveva soddisfatto la loro arsura e le loro voglie, i muscoli della schiena di Clio si rilassavano contro il petto di Tiberio, mentre in sottofondo andava la musica del piano bar sotto casa. E poi lui se ne andava e lei, lentamente, si alzava dal letto e, ancora con l’odore di sesso addosso, si sedeva alla scrivania e vomitava pensieri, lasciando il cuore in sospeso.
A volte le chiedeva di accompagnarlo ad alcuni eventi mondani e Clio si chiedeva perché portasse lei e non sua moglie. Ma si guardava bene dal chiederlo a lui, le bastava essere insieme e in qualche momento si sentiva in colpa nel prendere un posto che non era suo. E si ripeteva, forse per convincersene in maniera radicale, che se andava bene a lui e, di conseguenza, anche a sua moglie sarebbe dovuto andare bene anche a lei. E la moglie non era nemmeno inconsapevole visto che apparivano spesso su alcune riviste di gossip e scandalistiche.
Una di quelle sere rimasero a cena in un noto ristorante romano, frequentato da tanti volti noti della movida capitolina, e in molti andarono a salutare Tiberio. In quei momenti Clio si isolava, appoggiandosi allo schienale della sedia, girando il capo a guardare tutti e tutto tranne le persone che si erano avvicinate al loro tavolo.
Ci fu un momento in cui nessun occhio o orecchio indiscreto era puntato su di loro e lei osservò curiosa Tiberio. Lui cercò nelle tasche della giacca e pochi istanti dopo appoggiò un suo biglietto da visita sul tavolo, sfilò la penna dal taschino e disegnò un cerchio perfetto sul lato bianco del biglietto. Al centro disegnò un piccolo punto. Clio lo guardava confusa. Lui rimarcò il cerchio e poi ritoccò il punto al centro.
“Lo vedi questo cerchio?” le chiese. Clio non rispose, alzò solo un istante gli occhi a guardarlo.
Lui riprese: “Io sono il cerchio!” e tornò a rimarcare con la penna il punto centrale. “Tu sei il centro. Puoi sentirti sola a volte. Stai pensando che tra me e te ci sia uno spazio enorme, e tu ti senti troppo piccola per colmare il divario che intravedi... Beh, lo vedi solo tu. Se rifletti bene e ti metti in testa che io sono il cerchio, quello spazio che vedi è la mia anima che ti circonda e protegge… io ti racchiudo. Non vai da nessuna parte se io non ci sono. Non devi aver paura di arrenderti a questo mio esserci sempre, anche quando non sono con te fisicamente. Questa sera siamo insieme e sto attendendo che tu distenda le braccia e mi accarezzi. E lo so. Io lo so. Tu sei in attesa di sentire il mio respiro su di te. Ma permettimi di viverti in mezzo alla gente che mi conosce.”
“Ma tua mo…” non la fece finire di parlare. La zittì scrollando il capo.
Tiberio riprese in mano la penna e in giri concentrici riempì il divario tra il cerchio iniziale e quel puntino che la rappresentava. Premette la penna più volte in quel punto. Clio non si sentì più così piccola e ricacciò tra i pensieri, seppellendoli con un sospiro, la famiglia di lui.
***
Una pomeriggio, mente erano ancora a letto, lui si mise a parlare. Fu un monologo che Clio ascoltò con attenzione, una cosa del tutto nuova per lui che parlava molto poco. O meglio… parlava, ma non quando erano a letto. Era un uomo colto, un produttore. Un ricco produttore ammogliato ma perverso. Un uomo che poteva avere tutte le donne che voleva, le bastava schioccare le dita. Ma adesso voleva lei. Ed era con lei. E questo le bastava.
“Sai… io sono un produttore di amore, degusto le donne.” Le disse. “Gusto te. Il cazzo è per il porno, è un esercizio fisico che da soddisfazioni fisiche: i muscoli si irrigidiscono, il cuore sbatte, i corpi sudano.” S’interruppe per guardarla, per vedere se lei stesse seguendo quel discorso. Sorrise e proseguì: “Io non scopo. Scrivo poesie sulla pelle con la punta delle dita. Lascio canzoni sul seno con le labbra. Disegno quadri con la bellezza dei gemiti che fuoriescono dalle tue labbra. Non sono semplicemente un cazzo e tu meriti molto di più di un desiderio sessuale impaziente. La mia è un’arte disperata.” Fece ancora una pausa. Si umettò le labbra, le baciò la fronte e poi gli occhi e si fermò a leccarle le labbra. E sulle labbra, soffermandosi per qualche istante a ogni parola, le sussurrò: ”Sì, è un’arte potente, cruda, diretta, appagante, mozzafiato; ma io non scopo. Trovo, invece, quelle parti di te… quelle parti che hai dimenticato essere così belle e le conficco nei tuoi ricordi.”
Si avvinghiarono l’uno all’altra, scoparono ancora e ancora. E a Clio sembrò di toccare il paradiso mentre pronunciò quel “ti amo”. Tiberio si bloccò un istante, la guardò ma non disse nulla e ricominciò ad affondare colpi dentro di lei, fino ad arrivare all’orgasmo, senza aspettarla, in maniera rude. Azione contraddittoria con quello che aveva poco prima espresso. Poi lui si rivestì in fretta e come tutte le altre volte se ne andò.
Quella notte, si vestì anche Clio e uscì di casa. Un sabato sera qualunque, ma tante persone in giro. Camminò in mezzo alla gente alla ricerca di qualcosa, ma non sapeva cosa. Avrebbe voluto che lì fuori ci fosse lui, Tiberio. E pensando a lui, che sicuramente era nella sua casa assieme a sua moglie e ai suoi figli, capì che non sarebbe mai stato totalmente suo.
Si mise alla ricerca di qualcuno che potesse sostituirlo, quella stessa sera. Aveva un bisogno urgente di braccia, di una presenza carnale, di occhi che l’apprezzassero per quello che era e di una bocca che pronunciasse la parola “amore”. Stava rasentando la follia, ma aveva le sue ragioni. Guardò la gente che le passava vicino. Avrebbe voluto un uomo che potesse tenerle compagnia la notte, in modo che quel demone, che da un po’ non tormentava le sue notti, non fosse tornato. Un uomo che si fosse svegliato assieme a lei al mattino, così da far vedere a quel demone bastardo che lei sapeva amare e non aveva paura dell’amore. Nessuno la degnò di uno sguardo.
Aspettò, poi, in mezzo alla strada affollata e guardò quel dipinto di viola e blu che la sovrastava. Sembrava tenero quel cielo minaccioso in confronto alle parole che le risuonavano in testa e le apparivano liquide. Era come se incombesse su di lei un fiume in piena, che presto avrebbe tracimato, e sentì sottopelle la paura scorrere assieme al sangue nelle vene. E afferrò il senso di un’altra notte in compagnia del suo compagno oscuro.
***
Quando arrivava Tiberio Clio doveva lasciar perdere tutto quello che stava facendo e prestargli attenzione. Lui voleva così.
Una delle tante volte che piombò a casa sua, lei non si unì a lui subito, si scusò dicendo che doveva andare in cucina a bere. Quando entrò in camera da letto lui era disteso sopra le lenzuola, senza nulla addosso. Clio non gli andò vicino, ma si sedette su una poltrona e rimase a guardarlo come se fosse un dio.
Tiberio stava con le gambe rilassate e giocava a provocarla, accarezzandosi. Clio respirava a fatica, come se lui le rubasse il respiro anche a distanza, la confondeva. Sentì il cuore in gola e il desiderio di toccarlo si amplificò momento per momento. Si impose si rimanere immobile, ma il tremore delle mani tradirono il suo sentire, deglutì la saliva, che le aveva riempito la bocca, mordendosi le labbra.
Era dentro di lei, la penetrava non solo con il corpo, ma anche con le parole non dette, con quelle mani che si muovevano sulla carne tesa, con quel suo sguardo irritante. Ubriaca di lui che non avrebbe dovuto amare.
Eppure era lì a guardarlo, e lui era lì a toccarsi e tutto nell’aria era sesso, non amore. Sul volto di lei la sconfitta di chi sa che non può chiedere di più. E rimuginava pensieri che poi avrebbe scritto quando lui se ne sarebbe andato.
Tentava di comprendere perché voleva proprio lei. Che cosa trovava in lei? Che cosa lo spingeva verso di lei?. Clio sapeva che lui non l’amava, ma non poteva ignorare quel torrente che ribolliva e la sciarada di parole in testa che le dicevano che lui la voleva. Sempre. Temeva il giorno in cui non sarebbe più stato così e, in quei momenti rubati agli altri, alla famiglia di lui, Clio usava le armi che aveva in mano.
Porgeva a Tiberio piccole dosi di sé, quel tanto che bastava a far vacillare quel freddo atteggiamento che gli si disegnava in viso ogni volta che voleva fare il duro. E lo faceva ogni volta in maniera diversa, lui odiava la monotonia dei gesti e Clio, in quel senso, lo assecondava in ogni cosa, in ogni gesto, in ogni richiesta. In quel momento lui continuò a guardarla maneggiandosi il cazzo. Sapeva che Clio lo voleva e a lui si leggeva in volto la smania di avere le mani di lei sull’asta, piuttosto che le proprie. Invece Clio si aggiustò meglio in poltrona, le gambe accavallate e le mani sui braccioli. Si obbligò a rimanere immobile a guardarlo, in una guerra di sguardi. Tiberio non amava essere sfidato, soprattutto da lei. E adesso era sul viso di lui che si leggeva la confusione.
Lei rimuginò pensieri: “Non sai quello che mi passa in testa e questo ti spiazza. Non sai che ti sto usando e quando sarò sola userò quello che ho visto per scrivere. Non sai di essere la mia musa. Sì, ti amo. Sì, ti uso. E ancora sì… mi usi per il tuo piacere, quello che non trovi tra le mura di casa tua.”
Tiberio alzò il busto dal letto e si sedette ma, prima di fare altri movimenti e alzarsi per raggiungerla, Clio aprì le gambe e iniziò a toccarsi. Lui si bloccò a guardarla, un sorriso sornione gli si stampò in volto.
Clio finalmente parlò: “Mi piace esibirmi, mostrarti quanto mi fai diventare troia…”
E solo con i pensieri proseguì: “Ma sei tu che vuoi prendere completamente possesso di me? O sono io a possederti? Vuoi che mi inginocchi ai tuoi piedi e implori il tuo possesso? O sei tu che adesso vorresti farlo? Potrei darti l’eternità, ma cosa avrò in cambio? Avrò te come tu hai me?” Domande che Clio aveva stampate in mente da tempo, domande sempre senza risposta.
Lui si avvicinò e sostituì le mani di lei con la bocca e la lingua.
Quando se ne andò, all’imbrunire, lei finì di scrivergli una lettera che lui non avrebbe mai letto, ben nascosta in un file del pc.
La lettera terminava con: “Sì, sono tua, tra il peccato e l’amore, estasiata da questa storia che insisto a tenere in piedi. E’ un racconto che mi costringo a vivere. Una vita con più domande che risposte, un mondo che provoca sofferenza ed estasi. Non temo il bruciarmi, solo non comprendo perché non possa diventare tutto più semplice. Mi vuoi, ma non puoi sempre. Mi vuoi, ma quando hai finito te ne vai. Mi vuoi, ma sono solo una bambola da mostrare. Perché questo amore deve essere risucchiato in un vortice di paradossi? Forse avrò il coraggio di fare qualcosa per liberarmi di te. O forse sarai tu che ti libererai di me. Rimane il fatto che ti amo e non posso averti. Forse abbracciando l’eternità sarai completamente mio. Mio e di nessun altra. E’ morboso questo amore che provo per te e so che mi porterà alla distruzione. Ma almeno non distruggerò te. Tua per sempre. Clio.”

E Clio bevve di quell’amore fino a dissetarsi, mangiando le parole e i gesti di Tiberio con una passione ricambiata, con un desiderio che era simile al suo, con il fuoco della sua mente, in continui orgasmi di pensieri che versava in inchiostro sulle pagine sparse per casa o nei file del pc.
Alle volte cantarono su diverse armonie, ma la musica ha immense possibilità e in tanti momenti divennero una sola melodia. Clio credette di essere pronta, sperò, lambì i confini di quello che lui le chiedeva, senza lesinare. Sapeva di non essere amata, di essere solo un desiderio carnale, un oggetto da mostrare, ma ricacciava indietro tutto i pensieri oscuri quando era con lui.
Si rifiutò, infine, di vedere quello che era vero, la realtà, quello che i pensieri più volatili tracciavano senza preavviso e ricacciava dentro a forza, quello che anche un cieco avrebbe letto nel loro rapporto, mentre lei, resa impotente dall'amore che provava per lui, attendeva i suoi momenti.
Lei ascoltò attentamente il crepitio del fuoco che divampava ogni volta tra loro, vacillò nella polvere della cenere che ne rimaneva fino a mostrargli tutto quello che era. Sperava potessero bruciare più a lungo, pensava di poter gestire le fiamme e tenerle vive.
Ma il fuoco, si sa, è affamato e insaziabile, consuma tutto quello che brucia. E lui? Lui non era solo calore e Clio ebbe paura che nulla avrebbe potuto mai saziarlo. E il suo risveglio, il suo fuoco, la sua luce che non furono più di Clio ma di un’altra.
Clio non amava mostrare segni di intolleranza, i bordi oscuri di un esaurimento. Si ritrovò immersa in una fitta nebbia che lentamente evaporava dal ghiaccio che aveva avvolto la sua anima, dopo che lui le disse che era finita.
Non lo rivide più e non tentò nemmeno di chiamarlo al telefono. Si disse che aveva una cura per il proprio mal d’amore, ma forse non era ancora pronta a guarire, preferiva tenersi il gelo a corazzare il cuore.
Ripensò più volte alle parole di Tiberio, a quel “mi dispiace” detto senza guardarla negli occhi. E in fin dei conti lei lo capiva. Lui aveva la sua vita, l’altra vita. E ora c’era anche l’altra. E chissà quante altre l’avevano preceduta e quante altre ce ne sarebbero state. Un numero. Questo era diventata per lui. Un numero e un giocattolo che non gli serviva più, perché sostituito con uno più divertente.
Clio arrivò al punto di uscire di casa solo per fare la spesa e in ogni angolo della sua casa aveva appiccicato un post it con la stessa scritta, identica per ognuno di essi: “perché hai rubato il mio respiro e non me lo dai indietro?”
E in qualche maniera era arrivata anche a godersi la solitudine, con il freddo e oscuro demone che la possedeva, ogni notte, quello che non l’avrebbe mai delusa. Quello che tutte le notti le appariva dopo aver chiuso gli occhi. Lui l’amava.
“E se devo scendere all'inferno con lui per sciogliere del tutto e velocemente questo ghiaccio che attanaglia anima e membra, lo seguirò, mi scioglierò dietro i suoi passi e sarà amore per l’eternità. Arrivo Demone.”
Scrisse questo ultimo biglietto e lo appoggiò sul tavolo, poi accese una sigaretta.
“Metto la morte tra le labbra, prendo una lunga boccata. E’ un finto vivere quando si sta morendo. Una boccata di vita, il fumo tra le labbra.” Pensò. Il sapore acre del fumo e del tabacco le stuzzicò il labbro mentre espelleva la morte. Spuntò un sorriso. “Vivo il presente ed evito un futuro, A che serve il futuro se hai nessuno accanto?” una risata isterica colpì le pareti della sua casa e le parve di sentire un’eco.
Si sentì soffocare, come se la morte l’avesse accarezzata per un istante. Le si strinse il petto, un dolore acuto tra le ossa dello sterno. Sentì la sua carne bruciare e il cuore palpitare.
“E’ solo piacere se si riconosce il dolore.” Disse ad alta voce, come per sentire di essere ancora viva. Soffiò fuori il fumo che le accarezzò la bocca. Poi passò la lingua sulle labbra per assaporare il gusto della morte, ogni bacio sulla pelle arsa. Il gusto era acre, poi divenne dolce, lo paragonò all’ultimo dei baci di Tiberio. Un’ultima boccata. Ancora un pensiero legato a lui.
E ancora un sussurro: “E’ un finto vivere, quando si sta morendo...”
Poi si decise, andò in bagno e lasciò correre i suoi pensieri, la sua immaginazione… e c’era lui con lei.
Lui e il bagno. E l’acqua che correva. Osservò la grande vecchia vasca da bagno con i piedi da leone, enormi artigli che la sostenevano; ormai piena fino all’orlo con acqua calda.
Il vapore saliva in vortici seducenti, così fitti da confondere tutto il resto, le pareti e il soffitto scomparirono e c’era tutto un mondo in quella nebbia.
C’era lui. Clio lo sentiva, era parte dell’acqua, era nel vapore e la sua presenza l’avvolse come le sue braccia non avevano mai fatto. Sentì le sue mani stringerle i polsi, un dolore sottile come di una lama tagliente. Quella che affondò sulla carne, a raggiungere le vene.
Lei sapeva quello che voleva, quello che era, ed era convinta che lui era lì per un solo motivo. “Non mi lascerai andare fino a che non ti darò ciò che è tuo.”
Si arrese.
S’ immerse nell’acqua e sentì scivolare via ogni preoccupazione, la sua solitudine, l’ordinarietà della sua vita. L’acqua si chiuse sopra la sua testa e si rilassò.
“Il nostro momento durerà in eterno, rimarrai con me.” I pensieri corsero a lui e poi a quello che avrebbe voluto fare.
“Non ce la faccio ancora, è troppo presto, devo risalire, devo respirare e prendere ancora un altro respiro, e un altro ancora e andare avanti.”
Con la testa fuori dall’acqua, il vapore si diradò e Tiberio era lì, la stava guardando. Lei vide i suoi occhi grigi offuscati, il viso che sembrava essere di marmo, inflessibile e freddo, i capelli bagnati incollati alla nuca.
Chiuse gli occhi e appoggiò la schiena contro la vasca, il vapore le solleticò le narici, il volto era umido. Le rimaneva difficile respirare.
Lo sentì sussurrare il suo nome, Le sembrò rassicurante la sua voce, come se stesse calmando la sua bambina. I seni galleggiavano sulla superficie dell’acqua, senza peso, i capezzoli turgidi bramavano un tocco. Lo attendeva.
E finalmente si avvicinò, posò i suoi baci sugli occhi di Clio, la lingua leccò le gocce di vapore che le ricoprivano il viso. Era delicato.
Lento e delicato.
Le labbra di Tiberio sfiorarono quelle di Clio, i denti affondarono sulle labbra. Le mani impastarono i seni, li strizzarono, tirarono i capezzoli. Lei provò dolore, ma aveva bisogno di sentirlo, aveva bisogno di ricordarlo.
Nel momento in cui Tiberio affondò la lingua nella bocca di lei, Clio aggrovigliò le mani ai capelli di lui, per tirarlo più vicino a sé.
“Non posso lasciarti andare questa volta…”
Allargò le cosce contro i bordi della vasca, offrendosi, in attesa che le dita di lui trovassero la loro strada dentro di lei.
La trovò, lei gemette, sollevò i fianchi, l’acqua traboccò, ma lei aveva bisogno di avere di più. Mentre si contorceva e inarcava il ventre, Tiberio chiuse la bocca su un capezzolo, lo succhiò, lo morse. Lei sentì di nuovo dolore, si trasformò in piacere.
La tenne in bilico fra il piacere e il dolore.
Si accese il corpo e tutto vibrò nella mente di lei. Lui la lasciò un istante e lei si mise in ginocchio, le braccia appoggiate sul bordo della vasca.
Lo sentì subito dietro di lei, fulmineo, il suo corpo fondersi a quello di Clio, le mani si allacciarono ai seni.
“E’ tutto quello che ho sempre voluto, sentirti così vicino, petto contro schiena, le labbra che mi baciano il collo e le dita che tirano i capezzoli.”
Eppure non era sufficiente, il bisogno che sentiva Clio era infinito. Si strofinò conto di lui, sapeva che le avrebbe dato sollievo, sapeva che poteva farlo. Il cazzo contro la figa, lentamente scivolò dentro di lei a completarla.
Poi, senza preavviso, lui spinse duro, martellante. Il nucleo di Clio divenne rovente
“Ti voglio, godi! Fammi godere… Godi.” Urlò lei nei vapori.
Poi strinse con le mani il bordo della vasca, mentre gli schizzi andavano ovunque, seguivano implacabili i movimenti.
Gridò. Clio gridò ancora.
Ondate di piacere la trapassavano, fremeva, tremava, godeva, mentre lui si dissolse con gli ultimi resti del vapore.
“E’ troppo presto.” Sussurrò Clio.
Pianse con gli occhi chiusi.
Si immerse.
Tutta.
Aveva freddo, ma lì rimase, mentre il sangue si confondeva con l'acqua e i brividi le trapassano il corpo prima di cogliere un'ultima immagine dietro le palpebre chiuse: ancora lui, Tiberio, nel suo abito “tronfio” di alta sartoria.
E perse anche il suo ultimo respiro.

LEI di Sereno Notturno



Sentire quelle labbra pura intimità e sfogliarne i delicati sentori

PIACERI NASCOSTI di Sereno Notturno


Tutto quello era percettibile, ogni singola esistenza, qualunque movimento.
Ritornava la stessa estasi e il medesimo piacere. Nemmeno il tempo di essere preda, già eri cacciatrice, cercavi l'impossibile dentro quella tana fatta d'orgasmi.

DECISIONE LIBERA di Sereno Notturno



Puoi volere, essere o stupire, puoi essere tutte le cose insieme o nessuna. Discreto volere di un momento fatto di gesti, esile sentire di una sensazione fatta d'emozione.

LA SIGNORA DELLE CAMELIE di Andrea Lagrein




Richiusi il libro che stavo leggendo. Troppi ricordi. Troppa sofferenza. E quel romanzo stava riportando tutto a galla. Semplicemente Margherita mi mancava. La ferita del suo addio mi bruciava. Ne ero ancora innamorato. Ne ero ancora geloso. E il fatto di non sapere, in quel preciso momento, quel che stava facendo o a chi si stesse dando mi faceva letteralmente impazzire.
L'avevo conosciuta una sera a teatro. Ero alla Scala ad assistere alla Traviata di Verdi e quasi ci scontrammo nel foyer, durante la pausa fra il primo e il secondo atto. Lei sollevò lo sguardo e mi sorrise. Un sorriso delicato, indelebile ai miei occhi. Fui trafitto dalla sua bellezza. Su un ovale di una grazie indescrivibile mettete due occhi neri sormontati da sopracciglia con un arco talmente puro da sembrare dipinto, velate quegli occhi con grandi ciglia che, quando si abbassano, gettano una lieve ombra sul roseo incarnato delle guance; disegnate una bocca regolare, le cui labbra si schiudono graziosamente su denti bianchi come il latte; date alla pelle quel colore vellutato delle pesche che nessuna mano ha ancora sfiorato. E allora avrete l'immagine di quel delizioso volto. Era pura e semplice poesia. Era Margherita. E io me ne innamorai immediatamente!
"E' una puttana!" mi confidò poco dopo Armando, l'amico con cui ero a teatro. Lo guardai fulminandolo con gli occhi. Quello splendido petalo profumato non poteva di certo essere una troia! Ma Armando aveva ragione. Come mi disse subito dopo, Margherita faceva la escort. "Roba di gran classe, Lagrein, che ne tu ne io, nemmeno dopo una vita di sacrifici, potremmo permetterci! Lascia perdere!".
Ma io, di lasciar perdere, non ne avevo la minima intenzione. Mi aveva fulminato, mi era entrata dentro, mi si era scolpita nell'anima. Cristo! Mi aveva del tanto ammaliato che, se non l'avessi più rivista, sarei impazzito. Sicché, dopo un paio di settimane e fiumi e fiumi di birre, riuscii a recuperare il suo numero. La telefonata fu veloce e sbrigativa. Mi disse che si ricordava di me. Ma io non le credetti. Figurarsi! Classica balla per lusingare un potenziale cliente!
Ci incontrammo in un bar molto chic giù nel centro. Per l'occasione sfoggiai i miei abiti migliori. Gesù, probabilmente son costati un decimo del paio di scarpe che indossava. Ma, molto educatamente, fece finta di nulla. "Allora, Andrea, mi han detto che scrivi!". Il suo sorriso era disarmante. Doveva aver preso informazioni su di me. Questo non giocava affatto a mio favore! Decisi pertanto di giocare a carte scoperte.
"Più che altro cazzeggio, imbrattando pagine per ingannare il tempo e soprattutto me stesso. Ti hanno raccontato male, tesoro. Sono un mezzo alcolizzato senza lavoro, un inguaribile sognatore che ruba notti di amore qua e là, dove capita, fingendo di saperla lunga ma infondo senza aver mai capito un cazzo della vita!". Come presentazione non era male. Se non se ne fosse andata dopo dieci secondi, mi sarei detto bravo da solo!
Sorrise. E nel farlo si alzò. Sei secondi! Avrei sempre potuto entrare in qualche fottutissimo guinness dei primati! "Domani sera. Dopo cena. Da te!". La fissai stupito. E continuai a fissarla mentre usciva dal locale, ovviamente lasciando a me il conto. Beh, mi dissi bravo da solo!
La sera successiva eccola varcare la soglia di casa mia. Mi sorrise nel salutarmi. La guardai senza credere ai miei occhi. "Avresti preferito che mi presentassi con la tenuta ordinaria da lavoro?". Mi fece un occhiolino complice. La Margherita che entrò nel mio squallido bilocale di periferia non era la escort scintillante che tanto irretiva i clienti facoltosi, ma una ragazza semplice, vestita come si vestivano le sue coetanee di ventitre anni, l'eta che aveva, pronta a farsi una birra piuttosto che una coppa di costosissimo champagne. In fondo mi stava facendo un regalo. Mi stava donando la sua vera natura, la sua vera anima, ciò che era in realtà e non l'apparenza di cui si rivestiva normalmente per il lavoro che faceva. Davanti a me avevo la vera Margherita! Lo ammetto, aveva un look particolarmente aggressivo, nulla però che ricordasse la professione che faceva. E i suoi capelli rossi, rosso fuoco, Dio mio, incendiarono immediatamente i miei sensi.
Da quella sera iniziò la nostra relazione. Una storia fatta di sesso infuocato, ma anche di visite ai musei, di serate a teatro, di concerti lirici e libri letti e commentati insieme. Margherita non era solo un'Afrodite rediviva per me, era anche e soprattutto una compagna di vita, con un'intelligenza fuori dal comune, dall'ordinario. Il fatto che facesse la puttana era assolutamente secondario. Almeno all'inizio!
Mi piaceva guardarla stesa nel mio letto. O osservarla mentre cucinava, completamente nuda. Mi piaceva gustarmi la sua bellezza in mezzo alla bruttura del mio appartamento. Era riuscita anche nell'immane compito di renderlo accettabile. Ora, sul tavolo, vi era sempre un vaso con camelie fresche, i suoi fiori preferiti. La dove un tempo c'erano solo lattine vuote e mozziconi di sigaretta, ora si stagliava l'effige della femminilità, del buon gusto e del desiderio di normalità.
Ma con il trascorrere del tempo, il solo pensiero di dover condividere la donna di cui ero innamorato con altri uomini, anche se solo per danaro, iniziò a esacerbarmi, a farmi letteralmente impazzire. D'accordo, era solo lavoro, ma io ero geloso, fottutissimamente geloso. Iniziai a indebitarmi, a indebitarmi pesantemente pur di garantirle ciò che i suoi clienti, senza alcuno sforzo, riuscivano a darle. Nella mia follia, pensavo che se fossi riuscito a farle fare la stessa vita che conduceva prima non avrebbe più avuto alcuna necessità di concedersi per soldi. E sarebbe rimasta unicamente mia! Cristo, io che tentavo di fuggire disperatamente dall'amore, ci andai a sbattere addosso in malo modo. E il baratro si aprì sotto di me.
Un pomeriggio di un'estate afosa eravamo stesi nel letto. I suoi umori ancora rivestivano la mia pelle. La mia eccitazione era ancora fremente, per nulla appagata dalla lussuria che il suo corpo costantemente faceva vibrare in me. Avevamo appena finito di scopare, un amplesso selvaggio, animalesco, fatto di morsi, graffi e urla quasi dolorose, che io ero già pronto a riniziare. Eravamo stesi nel letto e il nostro maledetto destino prese forma dalle frasi che pronunciai.
"Smettila di fare la escort! Smettila, ti prego. Non la reggo più, io, sta cosa!". Lei mi fissò con occhi dolci. "Ci siamo innamorati, vero?". Più che una domanda, la sua, era una costatazione. "Non pensavo, dopo quel che mi è successo, di poterci ricascare. Ma......beh, direi proprio di sì!". Era un ammissione, la mia, una sorta di capitolazione davanti ai demoni del mio passato. Scopate di una notte, sbronze colossali, ferreo cinismo. Tutto svanito di fronte a lei. A Margherita!
Mi abbracciò. Mi baciò. Mi montò sopra. Lentamente. Delicatamente. Facemmo l'amore con passione e tenerezza, con trasporto e avidità. Facemmo l'amore per tutto il resto della giornata. Ed io mi sentii l'uomo più felice di questa terra.
Il giorno dopo, quando rientrai a casa, trovai un foglietto sgualcito di fianco al vaso di camelie. Vi era scritta una sola parola. Addio! Ci misi un po a capire, a realizzare il tutto. A comprendere che Margherita se n'era andata. Per sempre!
Mi incazzai di brutto. Mi sentivo tradito, preso in giro, usato. Mi sentivo come una breve parentesi, una vacanza dalla solita vita, poche settimane di bohème per provare brividi sconosciuti, per poi tornare ai lussi e agli agi da mantenuta d'alto bordo. Ero furioso! Ma del resto dovevo saperlo, con la storia che si trovava alle spalle. Cresciuta in un orfanotrofio, adottata da genitori che presto si stancarono di lei, abusata da un padre che non seppe resistere alla sua acerba bellezza, fuggiasca da casa appena compiuti i diciotto anni, battona da marciapiede a diciannove per sopravvivenza, gran dama a pagamento a ventuno, con un bell'appartamento in centro città, una Maserati a sua disposizione, yacht e abiti costosi pagati da ricchi industriali che facevano la fila per la sua fica e le sue tette. E io invece cosa le offrivo? La merda di un bilocale in periferia, cheesburger e patatine fritte e l'ansia del fine mese. Oltre al mio amore, ovvio. Ma quella era solo una parola, che non serviva a un cazzo, tanto meno a pagare le bollette! Infondo tutto poteva essere comprato e venduto, perfino i sentimenti, e Margherita ne era il paradigma. Tutto ruotava attorno alla disponibilità o alla carenza di denaro, al mercato dei beni, ai creditori o ai debitori. E Margherita era lo spaccato impietoso di questa società di merda!
Dall'ira passai alla tristezza. Dalla tristezza alla desolazione. Quella ragazza che tanto mi era entrata dentro mi mancava. Mi mancava da morire. E se n'era andata. Per sempre! Solo tempo dopo venni a sapere la reale motivazione. Armando le aveva parlato. Le aveva chiesto lui di lasciarmi, perché mi stavo rovinando di debiti pur di tenerla stretta a me. E lei alla fine aveva acconsentito, a malincuore. Per amore mio! La prostituzione, anche se scelta volontariamente, in fondo è sempre una prigione, un pozzo tanto profondo dal quale, anche sforzandosi all'estremo per guardare in sù, non si riesce a scorgere il cielo. Quel cielo che io ero pronto a donarle e lei disposta ad accettare. Margherita non riuscì a scappare dal proprio passato, da ciò che era e da ciò che volevano che fosse. E infine si sacrificò per me, rinunciando alla propria felicità per salvare il derelitto naufrago che ero. La verità ultima era che Margherita mi amava!
Richiusi il libro che stavo leggendo. Le lacrime ancora solcavano il mio viso. Lacrime amare. Lacrime di solitudine. Mi faceva troppo male, quel libro. Alexandre Dumas figlio. La signora delle camelie!

POSSESSO di Elsie R Stone






Lui è il mio fuoco, la mia voglia più sfrontata, lui fonte del mio desiderio più carnale e audace. Mi inginocchio e gattonando raggiungo i suoi piedi, li bacio e scopro le mie natiche, due promontori candidi e sodi, fonte del suo piacere più perverso. Mi offro tremante e eccitata al suo assalto, fatto di attese, sguardi torbidi che sciolgono la mia voglia libidinosa inumidendomi vergognosamente. Lo voglio con una passione inaudita, dentro di me, fino in fondo, fino allo sfintere e in quel possesso sodomizzante mi sento veramente posseduta, fottuta nelle viscere, dove dolore e piacere raggiungono vette altissime e dove la mia anima si dona a lui, completamente.