martedì 25 giugno 2013

Taccuino di viaggio di Giuseppe Balsamo


Sono innamorato di Bangkok quando però il mio volo atterra all’aeroporto di Phnom Penh sono felice. Non c’è molta gente in giro e la struttura è molto semplice, mi guardo intorno e mi ritrovo lontanissimo dal clamore del capodanno cinese.
Solo il giorno prima era immerso nel traffico devastante della capitale thailandese, bagnato come un pulcino, a bordo del mio tuk tuk, con i bambini che gettavano secchiate d’acqua addosso ai turisti, incuranti di bagnare effetti personali, macchine fotografiche e telecamere. Chi conosce Bangkok sa che in quei giorni funziona in quel modo, così anche io zuppo dalla testa ai piedi, mi diverto ad osservare i “farang” che imprecano, cercando di mettere al riparo i loro preziosissimi fardelli da turisti fai da te.
L’aria umida e calda della Cambogia è la stessa di quella thailandese, ma avverti una quiete diversa, riesco a sentire il fruscio del vento caldo che ti investe il viso fino a toglierti il fiato, non appena ti allontani dai luoghi climatizzati.
Posso accendermi una sigaretta, anche all’interno dello spazio aeroportuale, nessun divieto e pochissimi turisti, i locali mi osservano incuriositi, chissà se anche qui mi chiameranno “farang”, in breve recupero la mia sacca militare e cerco un taxi per andare in albergo.
Quando arrivo in un posto nuovo mi piace guardare la gente, come si muove, osservo le persone occupate nelle loro faccende quotidiane e penso a come vivono, a come possano passare le loro giornate. Quello che vedo mi affascina, posso scorgere con facilità le botteghe e gli ambulanti per strada, ci sono poche auto in giro e molte biciclette e moto, molti anche i tuk tuk anche se non belli come quelli thailandesi. Faccio fermare il taxi e mi affretto ad acquistare un po’ di frutta, i banchetti che vendono cibo sono ad ogni angolo, come in tutto il sud est asiatico, ci starei delle ore a guardare i colori del cibo esposto, ma devo fare in fretta.
Il centro cittadino mi lascia a bocca aperta, gli edifici coloniali francesi, anche se mal tenuti e bisognosi di una manutenzione che mai avverrà, conservano una bellezza antica, intrisa di ricordi, di storia. C’è un bell’albergo moderno in città, ma ho scelto di dormire in un hotel in centro, ricavato proprio all’interno di una vecchio edificio coloniale. Quando entro mi sorridono tutti, l’accoglienza orientale è proverbiale, comincio a fantasticare su quella hall e su quelle camere, dove si fermavano solo i reporter ed i giornalisti graditi al regime, ora meta di pochissimi turisti e viaggiatori che hanno deciso che la Cambogia è tornata sicura e che vale la pena dare un occhiata, alcuni dei quali come me esausti della confusione thailandese.
Fa molto caldo e passo le prime ore del pomeriggio a leggere in stanza, mangiucchio la frutta che ho acquistato, mi faccio qualche birra e mi addormento fino all’imbrunire.
Non ho certo voglia di cenare in albergo, così mi vesto ed esco, la mia passeggiata in città è divertente; sono contento di essere lontanissimo dall’orda di americani, italiani e tedeschi che, in bermuda e canotta, affollano Patpong curiosando nei bar intrattenendosi con le puttane locali.
Impossibile non notare la gran quantità di persone, di ogni età, prive degli arti. A chi manca un braccio, chi una gamba, chi entrambe le gambe, ciò che mi stupisce che leggo nei volti dei cambogiani è la normalità di questa situazione, come se quest’altissima percentuale di persone deturpate rovinate per sempre, sia del tutto normale. Il primo impatto, la prima reazione, è di concedere elemosina a tutti quello che ti chiedono qualcosa, poi ti rendi conto che è impossibile farlo, sono troppi…troppi.
Alla fine dopo un gran girare mi decido ad entrare in un ristorante nei pressi dell’hotel, meglio non rischiare la dissenteria o un brutto mal di stomaco. C’è una veranda che dà la vista sul centro cittadino, le strade pian piano si svuotano delle poche auto ed anche il numero di persone che passeggia per cercare un po’ di sollievo al caldo umido della giornata diminuisce. Il gusto del cibo è buono, la cucina cambogiana è ottima, meno speziata di quella thai, ne conserva e ne ricorda i sapori. Lentamente assaporo la mia zuppa di pesce e pomodori, mangio con avidità gli involtini di verdure e gli spiedini di pollo, tanto che non c’è più spazio per il dolce ma solo per un po’ di frutta. Fumo la mia sigaretta e bevo lentamente le mie birre, volgendo a tratti lo sguardo sua una tavolata composta da una decina di persone di varia nazionalità, probabilmente si tratta degli unici turisti presenti con me in città. Ridono e scherzano tra loro, alternando idiomi diversi, fra costoro anche una donna dai capelli castani, non è bellissima ma piacente, interessante. Mi colpiscono le sue labbra, il suo sorriso ed il suo modo di scostarsi i capelli dalla fronte madida di sudore.
Li lascio seduti al tavolo, inoltrandomi nella notte cambogiana, diretto all’albergo. Il giorno dopo sarà lungo e me la prendo comoda tra le vie cittadine poco illuminate, ancora una volta mi sorprendo contento per essermi allontanato dalla bolgia delle notti thailandesi, che pur ho sempre apprezzato, pronto a trascorrere la prima notte in questo Paese.

“Non parli italiano affatto…” rido di gusto dicendoglielo apertamente, invitandolo a sedersi per fare colazione con me. Giò Giò, così mi ha detto di chiamarsi, è un cambogiano alto e dinoccolato, estremamente magro, con un viso che sembra essere sempre pronto al sorriso, per nascondere quello che non ha mai avuto. Mi racconta, in una sorta di italiano pressoché incomprensibile, di aver studiato con un’insegnante italiana in un centro Uniceff appena fuori città. Ora lui è convinto di conoscere abbastanza l’italiano, in realtà conosce appena qualche vocabolo, così invece da farmi da guida come dovrebbe essere, sarò io a fargli da insegnante di italiano per i due giorni successivi.
Si rifiuta di mangiare qualcosa, nonostante le mie insistenze, così faccio in fretta e prendiamo insieme un taxi che ci porterà ad Angkor Wat. Lungo le strade che costeggiano le campagne mi racconta un po’ della sua vita, mi dice di essere orfano e di essere pressoché cresciuto nella missione, che poi è quel centro Uniceff in cui ha conosciuto l’insegnante italiana. “Mine… Boom…no cammina…”, mi indica quasi come fosse cosa normale i campi ai bordi della strada, cambiando improvvisamente discorso quasi incurante del mio viso perplesso nell’osservare la presenza di tutti quei terreni ancora pieni di ordigni devastanti, mi dice che tutti sono felicissimi per la presenza dei turisti in città, anche se ancora pochissimi.
Quando arrivi ad Angkor ti accorgi subito che nonostante gli interventi dell’uomo nel tentativo di disboscare, tagliare, ripulire, Madre Natura ha vinto.
Non poteva essere altrimenti: le mani che avevano progettato quei templi, le fatiche immensi degli indigeni che li avevano costruiti, scontrandosi con il caldo umido e soffocante nonché le dolorose punture di insetti, la sapienza degli scultori che avevano raccontato quelle storie misteriose adoperando non la penna o il pennello ma scalpello e martello, dovevano essere obbligatoriamente guidate da un’entità misteriosa, potente e sovrana, probabilmente la stessa Madre Natura. Non è altrimenti spiegabile come le costruzioni in pietra si armonizzino con la giungla circostante. I tronchi degli alberi secolari si contorcono sui templi, arricchendoli, facendone quasi parte, in un’armonia magica e sovrannaturale, rendendoli unici al mondo. Rimani a bocca aperta, contemplando la giunga con all’interno delle costruzioni in pietra ed all’interno l’anima della giungla stessa che ti urla, ti racconta tutte queste storie, muove i corpi delle danzatrici e dei danzatori al suono della natura.
Sorrido pensando a Giò Giò che all’inizio mi segue nel mio lungo peregrinare tra le rovine, tentando di raccontarmi e spiegarmi il più possibile, poi egli stesso si accorge che sono assorto nei miei pensieri, mi osserva passare le mani sui bassorilievi, come un cieco che legge il braille, nel tentativo di ascoltare quanto è raccontato dalla pietra e non dalla sua voce.
Passò lì tutta la giornata, ogni tanto sento il vociare di qualche strano animale sugli alberi, qualche poliziotto di guardia cerca di vendermi il suo distintivo per un paio di dollari, soprattutto cerco di imprimermi nella memoria quello spettacolo unico, non sentendo nemmeno fame e sete. Tra i sentieri incontro i turisti che la sera prima erano al ristorante, hanno una guida che parla inglese, inutile cercare di carpire qualche informazione, così passo oltre, incrociando per un momento lo sguardo di quella donna dalle belle labbra. Mi sorride per un attimo, sussurrando un buon giorno, rispondo al saluto: è italiana. Proseguo la mia visita fino al tramonto, non voglio certo perdermi il calar del sole in quel luogo, Giò Giò non c’è più, lo ritrovo nell’area riservata ai Taxi gli sorrido incontrandolo. Devo avere il viso soddisfatto e felice, nonostante la stanchezza, perché anche lui sorride orgoglioso di vivere in quel paese, pieno di dolore e mine, ma l’unico in cui la mano dell’uomo e Madre Natura hanno trovato il loro perfetto equilibrio.
Vado a cena tardi, nello stesso ristorante, appena in tempo per mangiucchiare qualcosa ed incrociare la stessa piccola comitiva di turisti. Stanno andando via e, questa volta, sono io a salutare la donna intenta a sorridere e scherzare con i suoi compagni di viaggio.
Dormo un sonno privo di sogni, troppo stanco per sognare, non riesco nemmeno a leggere, né voglio distrarre la mia mente da quello che ho visto, così decido di dormire e basta.

Solo due giorni, non avevo molto tempo per fermarmi, Giò Giò me lo fa pesare, rimproverandomi con gli occhi, anche perché a parole proprio non gli riesce, nonostante i suoi tentativi. Questa volta si decide a mangiucchiare qualcosa con me, ha la stessa camicia del giorno prima: bianca con le maniche corte, una sorta di divisa improvvisata che la sera prima deve aver lavato e stirato per essere pronta il giorno successivo.
Prendiamo un taxi ed arriviamo a quella che un tempo era una scuola, lo chiamano “S-21”.
Appena esco dal taxi ho la netta sensazione che lì intorno aleggi la morte, non si tratta di suggestione, ne sono certo, ne sono convinto: è palpabile. L’aria calda ed umida, che il giorno prima nemmeno sentivo, adesso mi da fastidio è insostenibile, soffocante, toglie il respiro. La luce è diversa, eppure partendo dall’albergo il cielo era terso, ora è plumbeo, mi incammino lentamente nella casa degli orrori, nell’incubo, nella desolazione, nella cattiveria fatta uomo.
Mi aggiro tra le stanze: salgo scale, scendo scale, guardo foto. Ti accorgi di essere sadico a voler vedere quegli strumenti di morte e ti fai schifo, ti fa schifo il genere umano. Ancora una volta Giò Giò prova a spiegarmi, ancora una volta decido di fare da solo: mi limito a leggere le didascalie che qualcuno ha voluto scrivere in più lingue per spiegare quelle immagini, per descrivere quegli oggetti con cui l’uomo ridotto in bestia scopriva il dolore vero, quello puro, quello che solo un altro tuo simile è capace di regalarti.
Nel silenzio più assoluto, mi accorgo della presenza dell’altro gruppo di turisti: nessun vociare, anche le spiegazioni della guida inglese sono blande, sussurrate, sincopate; si limitano a quel tanto che basta per comprendere ed assaporare la morte. Mi accorgo che siamo tutti quanti degli spettri, ci aggiriamo in quelle stanze come tanti fantasmi: camminiamo lentamente come spettri, abbiamo il volto bianco e le labbra serrate come degli spettri. Fantasmi tra i fantasmi, perché in quel luogo ti accorgi che le anime dannate, quelle che non hanno pace e sono costrette a vagare per l’eternità, esistono sul serio: le senti al tuo fianco, quando vedi le immagini di quegli uomini, delle donne, dei bambini sterminati e brutalmente torturati, percepisci il loro fiato freddo sul collo, ne senti l’alito che sa di acido piscio e sangue, il loro pensiero ti sfiora, il loro dolore ti lacera da dentro e capisci che non sarai più lo stesso.
Anche lei è lì, i nostri occhi vitrei si incontrano e si incrociano: nessun sorriso, nessun saluto. Ci fissiamo nel buio, anche se buio non è.

Fortunatamente la visita non dura molto, non ho voglia di mangiare, non ho voglia di scherzare ed un po’ mi spiace perché non rivedrò più Gio Giò e mi duole lasciarlo in quel modo; quando mi accompagna all’aeroporto mi sforzo di sorridergli e lo abbraccio. E’ molto intelligente ha capito come sto e non parla, ben contento della lauta mancia che gli ho lasciato, ma ancora più felice di aver imparato nuove parole in italiano, gli serviranno in futuro quando orde di turisti trasformeranno anche la Cambogia in Thailandia.

A Bangkok resto in aeroporto, non ho tempo ed il mio volo per Roma è nel pomeriggio, mi siedo a mangiucchiare e bere Shinga, osservando i turisti anziani che salutano le loro donne, in fondo si sono fidanzati per quindici giorni, tutto ciò merita saluti degni di un vero e proprio legame sentimentale.
All’imbrunire prendo posto in aereo, sono seduto proprio all’altezza dell’ala, guardo fuori dal piccolo oblò, preso dai miei pensieri e dalla tristezza che si protrae dalla mattinata.
Mi volto appena quando la donna, con cui ho incrociato lo sguardo fortuitamente nei due giorni precedenti, si siede nel posto vicino al mio. Ci salutiamo come ci conoscessimo da sempre, si chiama Cinzia ed ho la conferma che è Italiana. Quando l’aereo decolla raggi di luna penetrano all’interno, le luci sono spente ed il suo volto è illuminato da quella luce irreale. Mi accorgo che è triste, piccole lacrime scendono sulla sua guancia, sono triste anche io. Non so perché l’ho fatto, non so se rifarei ò più una cosa del genere; abbiamo entrambi sul grembo la piccola coperta verde della compagnia aerea, allungo un braccio e cerco la sua mano, gliela stringo sentendola tiepida e sudata, nonostante l’aria condizionata. Si volta verso di me e mi guarda seria, ricambiando la mia stretta, sento il suo pollice carezzarmi. Mi decido a parlarle:”Non pensavo mi facesse quell’effetto, che mi rendesse così… ”. Ha avuto la mia stessa giornata e può comprendermi, ci teniamo per mano e la vedo piangere nel buio. Mi avvicino e le sfioro la bocca con il mio labbro:”non tutti gli uomini sono uguali”. Lei ricambia il mio bacio e la abbraccio. Siamo una coppia come tante in aereo, anche se ci conosciamo appena, ma nessuno lo sa. Nel buio cerco il suo seno, il suo ventre, stringo il primo ed accarezzo il secondo; non preso da pulsione sessuale, ma dalla necessità di trovare conforto, di risalire la china della devastazione umana in cui quella mattina sono sprofondato. Lei lo capisce e mi lascia fare, per tutta la notte ad alta quota cerca il mio collo, le mie labbra, forse ne ha bisogno anche lei.
Ecco come ho conosciuto Cinzia, ecco perché abbiamo fatto l’amore, ne avevamo bisogno ed entrambi lo abbiamo capito


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