domenica 23 novembre 2014

STAND BY ME di Giuseppe Balsamo




Non aveva alcuna aspettativa.
Andava bene stare lì a parlare per ore, sfiorandole ogni tanto il volto con un dito.
Mangiucchiavano e bevevano birra scrutando la notte,
a volte stavano semplicemente abbracciati in un parcheggio pubblico aspettando il momento di salutarsi.
Non avevano aspettative,
quando tutto accadde fu del tutto naturale
ma allo stesso tempo sorprendente, eccitante,
come un bacio inatteso ma al contempo aspettato da molto.
Tutte le volte non avevano aspettative,
godevano dell’istante e degli attimi,
come fosse un regalo sotto l’albero a Natale.
Non avevano aspettative,
ma non aspettavano altro che il momento di vedersi e rivedersi arrivasse.

ADOR INCANT di Asianne Merisi




Raisonnement complexe et tactiques organisent
tandis que vos yeux regardent à l'horizon.
Je appelle au calme et détermination
tandis que la chaleur se écoule dans les veines.
Presque prêt à annoncer la convoitise
êtes-vous que je avance.
Vos mains se accrochent à la chair
et vos lèvres bouger évolutions experts,
Je lève les yeux au contraire
et je perds le contrôle de moi-même.
Je veux dix, une centaine d'heures, mais même une minute résister.
Je regarde en arrière pour obtenir mon charme
comme je me sens de se asseoir dans le paradis,
les nuages qui enveloppent le plaisir mes sens
et en quelques heures encore, je te veux.
..oltre♥

TITANIC di Alice Stregatta



Navigavo in acque calme su una nave da crociera, ero in prima classe. L'orchestra: un piacevole sottofondo ad una vita agiata, forse pigra, a tratti troppo. Piatta, con guizzi di allegria.
Una pacata serenità. I miei pensieri si inseguivano come i delfini che si rincorrevano all'orizzonte, giocosi. Una voglia latente di scappare da quella gabbia dorata strisciava come un geco alla ricerca di un raggio di sole... un'insoddisfazione di fondo che mi faceva sentire fuori posto in ogni luogo, con la voglia di altro, la voglia di altrove.
Fino al giorno, apparentemente come tutti gli altri, in cui la nave si scontrò contro il suo iceberg, collassando.
Si spezzò in due, spezzando anche me. Vita distrutta, sgomento, disperazione, senso di vuoto e solitudine esplosero in un silenzioso, assordante boato.
Colai a picco. Mi aggrappai ad una sbilenca scialuppa di salvataggio: fuscello, barchetta che imbarcava acqua ad ogni ondata calma. Gelida morsa d'acqua ghiacciata.
Bagnata fradicia, attorniata da squali, dibattuta tra la voglia di resistere e la tentazione di lasciarmi scivolare tra i flutti. Darmi in pasto alle belve, diventare cibo per pesci, dare un nobile scopo alla mia vita: finalmente, smettere di soffrire.
Un attimo di panico, un dolore feroce, un lago di sangue: un morso, un boccone.
E poi, la pace.

ONDATE ORGASMICHE di Alice Stregatta



Parlare con lui le piaceva, ma bastava una parola, un suo sguardo, il ghigno malizioso che immaginava gli si dipingesse sul volto per infiammarla di desiderio.
Si erano salutati da un po', lei aveva cercato di distrarsi, di dormire, di non pensare a lui... Ma al risveglio si ripresentò la stessa voglia che l'aveva accompagnata tra le braccia di Morfeo.
Si spogliò, si immerse ancora più a fondo sotto il piumone e immaginò le sue mani, la sua bocca... Il suo modo di farsi strada con la lingua, dalla bocca, al seno, all'ombelico... Giù fino alle cosce. Le avrebbe scostate con decisione per tuffarsi a leccarla, mordicchiandole il clitoride, con due dita a penetrarla...
Quando fosse stata al limite del godimento, si sarebbe ritratto e sarebbe risalito a baciarla... A lungo, per un tempo infinito.
Lei avrebbe inarcato il bacino in cerca di un contatto deciso e profondo col suo cazzo... Scopami...
Ti prego... Scopami...
Era come se stesse accadendo, era come averlo lì, mentre si accarezzava e ansimava godendo...
Diventò tutto buio, si abbandonò all'ondata che la travolse, mormorò il suo nome... Melodia di gemiti e consonanti... Continuò ad accarezzarsi dolcemente, cullata dal loro orgasmo, cercando di prolungare lo spasmo, trasformandolo in piccoli sussulti...
Sorrise, soddisfatta... Aveva voglia di dirglielo: ho goduto di te.
Annusò il proprio piacere, leccando e succhiandosi le dita...
Gustosa, solitaria lussuria...
Prese il telefono... E glielo scrisse.


L'IMPERATRICE PUTTANA di Andrea Lagrein



La sfida stava per avere inizio. Lisisca era sicura della vittoria, talmente sicura che aveva scommesso con Marzia, la sua antagonista, di restituirle il doppio di quel che avrebbe guadagnato quella sera se non fosse riuscita a scoparsi durante la notte un intero plotone di uomini. Venticinque uccelli da soddisfare in poche ore era impresa davvero notevole, ma Lisisca era convinta del suo trionfo finale.
Mnemmone, il liberto che gestiva il postribolo dove Lisisca si prostituiva, già si sfregava le mani pregustando introiti fuori dall'ordinario. La voce si era sparsa velocemente in tutta l'Urbe e quella sera, ne era certo, ci sarebbe stata una bella fila fuori dalla sua porta. E tanti, ma tanti sesterzi, dentro la sua bisaccia.
Valeria, questo il vero nome di Lisisca, era una giovane davvero bella e avvenente, e solo i clienti più facoltosi potevano permettersi una scopata con lei. Ma quella sera sarebbe stato diverso. Quella sera contavano i numeri e anche stallieri e legionari sarebbero andati bene pur di raggiungere il suo folle obiettivo. Venticinque chiavate prima del sorgere del sole!
Mnemmone al solito le aveva riservato la stanza più lussuosa, che poi tanto lussuosa non era, anche se si trattava della migliore di tutta la Suburra. Valeria aveva scelto quel lupanare perché frequentato di sovente da gladiatori e ufficiali dell'esercito, uomini veri, uomini che la sapevano far godere. Ed era questo quel che contava per lei : godere.
Nessuno, nella sua famiglia, avrebbe mai immaginato che giungesse a ridursi in tal modo, squallida puttana in bordelli malfamati. Ne tanto meno lei. Figlia di un console, imparentata con la familia Giulio-Claudia, discendente del divo Augusto e con nelle vene sangue imperiale, era stata allevata fin dalla culla nei precetti della virtù romana tanto cara a Catone, discepola dei più stimati e rinomati retori e filosofi del tempo. La sua bellezza, poi, era assolutamente straordinaria, al pari della sua arguta intelligenza.
Ma tutto ciò non aveva importanza quella sera. In quel momento lei era Lisisca, la lupa, pronta a soddisfare venticinque verghe assatanate pur di poter celebrare il suo trionfo, quasi fosse un imperatore di ritorno da qualche vittoriosa spedizione.
Il primo ad arrivare fu Sabinus, suo assiduo cliente. Lisisca si era preparata a dovere. Era uscita furtiva dalla sua domus, senza farsi notare, scivolando lungo i muri degli edifici nella tiepida sera romana, completamente avvolta in un ampio mantello. Giunse nei vicoli maleodoranti della Suburra dove la povertà della plebe esalava i suoi mefitici olezzi. Puzzo di piscio e merda, sudore e cibo irrancidito, aglio e cipolle, caligine dei focolari e letame di animali. Un fremito le corse lungo il corpo appena prima di entrare nel lupanare. Era la lussuria che già le inumidiva la fica. E a breve avrebbe placato le sue immani voglie.
Sabinus sorrise in modo volgare nel vederla. "Ave, lupacchiotta! La mia verga è qui pronta per te!". Lisisca sollevò il sopracciglio in un gesto di sfida, come se volesse mettere alla prova le vanterie dell'uomo. Era già stesa sul letto di legno a lei riservato, un vero lusso per quei luoghi, con candide lenzuola fresche di bucato. Non erano molte le puttane a cui veniva riservato un simile trattamento.
Del resto Valeria era abituata a ben altro. La domus in cui era cresciuta era davvero bella, al limite dello sfarzoso. Ma ancor più bello era il palazzo in cui fu condotta dopo che si sposò. Nozze da lei non scelte, ma imposte dalla divinità imperiale. Aveva solo quindici anni ma al volere dell'augusto Gaio Cesare Germanico non si poteva certo dire di no. Fu sua madre, non certo entusiasta, a darle la notizia. "Si tratta di Claudio, zio dell'imperatore. Ha cinquant'anni ed è tutt'altro che attraente ma, ti prego, non fare storie perché è Caligola che vuole queste nozze".
Con l'imperatore non si poteva di certo scherzare, soprattutto se l'imperatore era Caligola. Un pazzo sanguinario, squilibrato, depravato oltre ogni limite, assetato di sangue e vendetta. No! Un tale invito non lo si poteva di certo rifiutare. Anche se lo sposo aveva trent'anni più di lei, balbuziente, zoppo, brutto, insignificante e per giunta scemo, a detta di molti. Ma un ordine di Caligola era pur sempre un ordine di Caligola.
Lisisca fissò Sabinus mentre si spogliava. Per Giove, il fisico di quell'uomo la faceva pulsare di voglie irrefrenabili. Muscoli guizzanti, corpo nerboruto, addominali scolpiti, braccia e gambe possenti, sguardo volitivo, volto duro e ruvido. Un vero uomo! E non poteva essere altrimenti, visto che era uno dei gladiatori più forti di Roma. Il suo ingresso nell'arena era sempre accolto con un grande boato della folla. Il nome veniva inneggiato quasi fosse un generale vittorioso. E Lisisca era pronta a scoparselo.
Sabinus si avvicinò con l'uccello già teso e palpitante. La puttana ne sorrise compiaciuta. "Usa la tua verga come impugni il gladio nell'arena, mi raccomando" lo esortò la donna. Sabinus sogghignò truce. "Ti impalerò come fossi il più fottutissimo mirmillone che abbia mai incontrato in combattimento, stanne certa, cagna. Ora voltati che ti prenderò come una vacca da monta".
Quasi non ebbe il tempo di voltarsi che le mani rudi e forti dell'uomo l'afferrarono per i fianchi. Sabinus non perse tempo e affondò il suo uccello nella vulva della donna, spingendo e fottendo come un ossesso. Lisisca iniziò a gemere sotto quella furia. E godette ancor di più quando Sabinus spostò le mani dai fianchi ai seni, straziandone avidamente i capezzoli. Oh sì, questo era un uomo, un vero uomo, non come quel cazzo moscio di suo marito!
Eppure con Claudio ebbe due figli. Eppure con Claudio all'inizio fu felice, nonostante le facesse ribrezzo, felice di giocare alla virtuosa matrona romana che accudiva i suoi pargoli, Claudia Ottavia e Cesare Britannico. Lei, Valeria, la novella Cornelia! Ma la vita di corte, unita alla noia di un marito insignificante, presto la traviarono. E la corte di Caligola era ciò che di più sfrenato vi potesse essere. Un mattatoio a orario continuo : complotti, delazioni, assassinii, torture, suicidii, orge, baccanali, feste, balli sfrenati. Finché un giorno, l'augusto imperatore, venne assassinato. L'esercito, senza esitazione, acclamò come successore proprio suo marito, il ridicolo Claudio, e d'improvviso Valeria si ritrovò sul trono del più importante impero del mondo.
Ma quella sera il trono sul quale voleva sedersi era quello del suo trionfo sessuale. E con determinazione si lanciò nella sfida. La notte correva veloce. I bracieri e le torce iniziavano a consumarsi. Dopo Sabinus ne vennero altri quattordici, che Lisisca soddisfece appieno. Fu dunque il turno di un oste che gestiva una bettola vicino al Circo Massimo, un tale di nome Curzio Quinto.
Era un uomo basso e tarchiato, con i denti guasti, un'insopportabile puzza di cipolla e sudore addosso, la tunica unta e sgualcita, il volto mal rasato e due occhi da porco assatanato. Ma quando si tolse gli indumenti a Lisisca quasi mancò il fiato. Non aveva mai visto un fallo di tali proporzioni, degno del miglior Priapo. Subito la fica le si bagnò di nuovo, fremente d'attesa per prendere quell'insperato dono di Giove.
Nonostante la stanchezza la donna attirò a sé l'uomo. Lui non si fece di certo pregare e con un colpo violento la penetrò facendola urlare di dolore. Ma la sofferenza ben presto svanì lasciando il posto a un immenso godimento nel venire scopata da quella verga davvero notevole. L'uomo era steso su di lei, con il volto che quasi affondava nei suoi capelli. La chiavava con una brutalità davvero insolita ma questo, a Lisisca, piaceva infinitamente.
A Valeria piaceva essere scopata da sconosciuti. Nei suoi sogni più sfrenati aveva addirittura desiderato di essere violentata nei vicoli fangosi della sua città, presa brutalmente da loschi e biechi individui. A Valeria piaceva poiché tutto ciò le era negato nella posizione che aveva assunto. E si annoiava, si annoiava tremendamente.
Sicché cercò di replicare la sfrontatezza della corte dell'augusto predecessore. A suo marito non dispiaceva organizzare orge dove il piatto forte fosse sua moglie, ordinando ai suoi cortigiani di soddisfare le sempre più crescenti voglie di Valeria. Come nel caso dell'attore Mnestere, convinto da Claudio a fottersi la moglie. Ma più passava il tempo e maggiore era l'insoddisfazione di Valeria. Considerava ormai i cortigiani dei mezzi uomini, non adatti all'ideale di virilità che lei desiderava.
E quel che lei bramava lo trovò nei lupanari della Suburra. Stanca di amori che non le lasciavano nulla, decise di anestetizzare il suo cuore vestendo i panni della puttana. Una parrucca bionda, la pelle depilata completamente, con i capezzoli dorati e gli occhi segnati da antimonio, sgattaiolava fuori dal palazzo imperiale con la complicità dei liberti e si dirigeva da Mnemmone, il quale le riservava la cella più bella, affrescata da poco, ordinata e pulita. Qui, con il nome di Lisisca, si concedeva a marinai e soldati, funzionari pubblici e bottegai maleodoranti. Qui non era più l'imperatrice a cui inchinarsi e compiacere. Qui era semplicemente una donna attraente e affascinante, per la quale gli uomini erano disposti a pagare pur di poterla possedere.
La notte correva veloce e l'alba si stava approssimando. Lisisca iniziava a essere stanca. La fica le bruciava e braccia e gambe tremavano dalla fatica. Ma la sfida non era ancora vinta e lei era determinata a portarla a compimento. Nel cubicolo a lei riservato la puzza di sesso consumato stava divenendo insopportabile. Le lenzuola erano intrise di sudore e sperma, fradice dei suoi stessi umori.
La tenda che fungeva da porta a quella alcova di piaceri a pagamento si aprì. Entrò il ventunesimo cliente. Un uomo dai capelli spettinati, ingrigiti dal tempo, con il volto abbronzato solcato da innumerevoli rughe e con un corpo virile e possente. Un soldato sicuramente. "Sono Decimo Manlio, centurione della Legio decima Gemina". Lisisca lo squadrò incuriosita. Le piacevano i legionari. Avevano un modo di scopare molto animalesco. E questo, a lei, dava molta soddisfazione.
"Bene, centurione. Cosa posso fare per te?" domandò sfrontata e ironica. L'uomo sollevò la tunica tenendo in mano il suo uccello. "Succhiamelo, puttana. Succhiamelo e bevi fino all'ultima goccia". Decimo si avvicinò e le spinse la verga in bocca. Lisisca non era preparata a quella veemenza. Ma non si tirò indietro. L'uomo le afferrò selvaggiamente i capelli, spingendo la sua nerchia sempre più in profondità. Lisisca stava quasi per soffocare, mentre violenti conati la facevano sussultare tutta quanta.
Decimo grugniva in modo sempre più osceno, mentre a lei iniziavano a scendere le lacrime per lo sforzo, con le mandibole che le dolevano tremendamente. Ma nulla la eccitava di più che tenere in bocca quell'uccello gonfio e teso, nel vedere quel centurione, abituato a mille battaglie, sussultare e gemere sotto la sua lingua quasi fosse la più imberbe delle reclute. Perché lei era Lisisca, l'imperatrice del sesso!
E in quanto imperatrice Valeria era ormai abituata a destreggiarsi nel mondo violento e osceno della corte romana. Aveva imparato in fretta, a dire il vero. Questione di sopravvivenza. C'era da tenere a bada quella maledetta di Agrippina, che faceva di tutto per spingere il proprio figlio Nerone sul trono. Valeria doveva stare attenta, se voleva che il suo Britannico succedesse al padre.
Iniziò a mettere in pratica tutto ciò che aveva imparato da Caligola. Congiure, traffici di tangenti, omicidi, delazioni. E soprattutto manipolare quello stolto del marito, sempre pronto a credere alle panzane che lei gli raccontava. A Valeria la gestione del potere piaceva. Poter disporre a proprio piacimento della vita altrui la esaltava, la eccitava. Quasi come un orgasmo! Veder morire sotto i suoi occhi un uomo, un nemico, era paragonabile a godere del corpo prestante di un gladiatore. Sesso, morte e potere. Valeria non poteva chiedere di meglio!
Il sole iniziò a sorgere sopra i tetti della città eterna poco dopo che il venticinquesimo cliente ebbe lasciato l'alcova di Lisisca. Aveva vinto la sfida. Ce l'aveva fatta. Sarebbe stata proclamata invicta! Stanca ma non sazia, si lasciò cadere pesantemente sul letto, ormai laido dopo una notte di folli scopate.
Si voltò appena ad accarezzare la statua di Priapo, suo protettore, posta su una piccola mensola lì a fianco. Le dita scivolarono delicatamente sul grande fallo della divinità, a cui Lisisca rivolse una preghiera di ringraziamento per la vittoria appena conseguita. Aveva il trucco ormai sfatto, il corpo stremato, puzzava di sudore, cazzo e sperma, ma nonostante questo era la donna più felice di Roma. Aveva ancora una volta dimostrato, se mai ce ne fosse stato bisogno, di essere la migliore.
Mnemmone entrò con un sorriso di condiscendenza. Anche lui era visibilmente soddisfatto per gli ingenti introiti della nottata. Come richiesto da Lisisca, appoggiò sulla piccola cassapanca ai piedi del letto un vassoio con una caraffa di eccellente Falerno e focaccine accompagnate dal garum. Il meglio che si potesse chiedere.
E non poteva essere altrimenti!
Perché lei era Valeria Messalina, figlia dell'ex console Marco Valerio Messalla Barbato, moglie del divo Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico, imperatrice di Roma.

DONNA di Fabio Morici




Le tue spalle son le Alpi 
I tuoi fianchi Dolomiti 
Ma è nel mezzo alla pianura 
Tutta nera
Tutta rossa
Che potente scorre il fiume
Del Piacere e della Vita . 

HO VOGLIA DI TE di Alice Stregatta



Serata malinconica...
Ho voglia di silenzio. Ho voglia di coccole. Ho voglia di te.
Sedermi a cavalcioni, sfilarti l'iPad dalle mani, lasciarlo scivolare tra i cuscini del divano.
Guardarti... Seguire i contorni del tuo viso con le dita, quelli della bocca con la lingua.
Guardarti... Chinarmi a baciarti.
Un bacio dolce, lungo, un bacio infinito, un bacio da togliere il fiato.
Posare baci leggeri, sulla fronte, le palpebre, il naso, gli angoli delle labbra, il collo...
Continuare in lenta discesa... Petto, ventre, ombelico.
Ho voglia di sfilarti i jeans.
E continuare con i baci, e con la lingua, ad esplorarti.
Di attirarti a me.
Ho voglia di fare l'amore.
Ho voglia dell'unico silenzio che abbia un senso.
Un silenzio fatto di sospiri, gemiti e ansimi.
Un silenzio solo nostro.
Ho voglia di te.


COME IL BURRO di Alice Stregatta




Si sentiva come un panetto di burro. Morbido, lucente, invitante.
L'incarto d'alluminio scintillava, una metà perfettamente liscia, accartocciato nella parte aperta e richiusa.
Un panetto di burro è una delle tante cose che non reincarterai mai in maniera perfetta, un po' come quando apri l'imballo di un frullatore.
Non c'è neanche bisogno di tirarlo fuori: si espande al solo contatto con l'aria. Non riuscirai mai a richiuderlo come se fosse uscito dalla fabbrica, o dal negozio... Qualunque cosa tu faccia. Nemmeno se sei campione di Tetris. Mai.
I frullatori, i giochattoli e i panetti di burro.
Dicevo... Si sentiva come un panetto di burro. Le persone sollevavano l'alluminio, ne tagliavano un pezzetto e lo riaccartocciavano per poi rimetterla in frigo.
Ultimamente le sembrava di essere continuamente trafitta da coltelli dalle lame roventi. L'ultima ferita era ancora aperta, recentissima. E, per una volta, non c'entrava niente l'amore ma, come sempre, la fiducia concessa al prossimo.
Si era sentita in vendita. E non lo era.
Mai- mai stata- mai.

Poi... Poi c'era lui, lui che aveva deposto le armi come promesso, lui che non era un coltello, neanche uno di quelli con la lama arrotondata che le piaceva tanto -perché c'è modo e modo per prender qualcosa dagli altri- perchè tutto può diventare carezza... Lui era panna, ricca e corposa. Sostanza nutritiva, golosità e voglia. 
E aveva quel modo di fare che la faceva impazzire.
La scioglieva, la plasmava, si fondeva con lei. 
Burro e panna, sciolti in un abbraccio, fusi in un amplesso.
Burro e panna, che ogni volta che si avvicinavano, cambiavano composizione e sostanza. Che stavano pian piano prendendo una forma nuova, una dimensione diversa.
Stavano diventando un panetto di burro talmente gustoso e speciale, che tutti avrebbero voluto assaggiarne un po'.
Dovrebbero brevettarne la ricetta...

PRATICHE LEGALI di Alessandro Testa




L’odore di castagne arrosto misto ad un condimento di origine indiano si spargeva per l’androne del mio palazzo quando arrivato davanti alla distesa delle cassette della posta, vidi fuoriuscire dalla numero 19 (la mia) una busta bianca mista a volantini di ‘’Speedy pizza’’ e ‘’Pizzeria La Magnolia’’ … Alla ricerca della chiave per aprire, decisi di estrarre la busta direttamente, il mittente era chiaramente uno studio legale ed immaginavo già cosa ci fosse scritto all’interno di quella busta.
Erano passati appena 3 giorni dal ricevimento dell’invito, quando mi ritrovai catapultato all’interno di una sala d’aspetto in uno studio in pieno centro della capitale. Il mio era l’ultimo appuntamento della giornata evidentemente perché dopo essere entrato io nel salottino, nessun’altro entrò dopo di me e pian piano i posti a sedere si liberavano. Leggevo tranquillamente una rivista tra quelle a disposizione, tutte trattavano di borse, di affari , di trattative legali e codice civile. Il salotto era in pieno stile ottocento con drappeggi alle pareti pesanti, lampadari riaddomesticati con il neon freddo, tappeti sul pavimentologori e di dubbia fattura, e finestre alte due metri il cui affaccio era proprio su Piazza di Spagna.
La signorina che mi aveva aperto la porta all’ingresso, mi venne a chiamare perché l’avvocato si era finalmente liberato, tanto che mi accorsi di essere proprio l’ultima persona presente ad eccezione del cliente precedente che stava saldando una fattura staccando un succulento assegno dal suo blocchetto. Entrando nell’ufficio dell’avvocato venni soffocato da un’aria torrida, quasi come quella nelle giornate di agosto al mare, togliendo l’eventuale umidità ed aggiungendo un vago profumo di mughetto che veleggiava a mezza altezza. Lo stile dell’ufficio era completamente diverso, sintomo di una personalizzazione forte del proprio occupante: il moderno era di casa in quell’ambiente e lo stile unito al buon gusto la facevano da padrone
’Eccomi, mi scusi un attimo prendo il suo fascicolo e sono subito da lei!’’.
Da una porta laterale interna dell’ufficio, una voce di donna mi sottolineò, se ce ne fosse stato bisogno, la sua assenza. Ero in attesa restando in piedi con il mio soprabito curiosando all’interno delle vetrine su tutti i dorsi dei libri che negli studi professionali sono tutti uguali tra loro e progressivamente numerati in base all’anno di scrittura. I passi che subito dopo distinsero l’ingresso di una figura erano quelli di un tacco dodici che si stagliavano su un parquet di mogano invecchiato e logoro.
Girandomi verso i passi, il mio sguardo iniziò a disegnare la figura dell’avvocato a partire dalle sue caviglie, sottili e curate, del suo ginocchio che pronunciavano gambe diritte ed affusolate, fino all’inizio del suo tailleur senza dubbio Chanel. La vista riprese il cammino sulla sua figura arrivando velocemente al viso, occhi chiari, carnagione chiara, capelli biondi finissimi e ricci, ma non credo un riccio naturale e comunque alquanto stanco per via del finire della giornata lavorativa.
‘’Le dispiace se apro un poco la finestra per cambiare l’aria?’’
“ … faccia pure…” , le risposi io che soffocavo in assenza di ossigeno.
Le movenze ancheggianti dell’andare suo verso la finestra mi fecero venire in mente una miriade di soluzioni possibili, così come noi uomini siamo sempre tenuti a fare per contratto.
‘’Ma veniamo a noi, dunque, mi è giunta da qualche giorno una lettera che la riguarda, nella quale viene dichiarato lo stato fallimentare di una azienda dove lei era impiegato anni fa. La ditta in questione richiede ……. ‘’.
…. Ma francamente il mio pensiero era tutt’altro che presente alle parole dell’avvocato, ero invece concentrato sulla sua dentatura, sulla sua bocca che si apriva e chiudeva ritmicamente per far uscire parole e significati per me del tutto sconosciuti. Pensavo in realtà come una donna con quello stile e quel fascino potesse vestirsi intimamente sotto quel tailleur …. colori forti …. forse un blu scuro…. un rosso bordeaux …. Si tolse gli occhiali e si alzò nuovamente … io che ero ancora in piedi a fantasticare sulle sue abitudini private ed intime, la vidi nuovamente avvicinarsi alla finestra, chiuderla e stavolta abbassare anche la tenda a pacchetto. Si tolse gli occhiali da vista e la vidi avvicinarsi a me come una gatta si avvicina al suo gioco preferito. Mi prese il soprabito e lo getto sul divano, mentre la sua mano destra mi afferrò il nodo della cravatta per scioglierlo un poco, tanto da poter avere accesso al primo bottone del colletto della camicia e strapparlo! A quel punto ci annusammo a vicenda, lei sul mio collo fece come un piccolo sentiero con il naso raccogliendo le ultime molecole del mio profumo quotidiano ed io, non fui da meno su di lei. Mi padroneggiava ed io ero il suo schiavo prescelto! Non potei fare nulla se non attendere le sue mosse successive. Mi tolse la giacca facendola cadere sul posto, la cravatta prese il volo, lontano stavolta, e la camicia perse uno dopo l’altro i suoi bottoni bianchi. La sua bocca avida mi morse i capezzoli con forza e voracità, mi leccò i pettorali per poi prendere a mordermi nuovamente i capezzoli, ancora e ancora una volta fino a segnarli duramente. Provai dolore, si , un dolore di piacere, ma la mia reazione non seguì i suoi movimenti. Allora mi sospinse con decisione verso la scrivania, gettandomi seduto sulla sua sedia presidenziale in pelle nera e facendomi ribaltare col mio peso all’indietro. Ero in balia di una selvaggia che stanca di tutto il moscio che fino a quel momento l’aveva attanagliata, aveva finalmente trovato un duro da domare. Mi tolse le scarpe ancora allacciate con fermezza e mi slacciò la cinta dei pantaloni non senza qualche difficoltà, cosa che le fece perdere la pazienza a tal punto da alzarsi e darmi uno schiaffo in volto a mano piena senza che questo mi facesse ancora far perdere la pazienza. I suoi occhi erano rossi dalla voglia di trattarmi male e da quella posizione mi sfilò i pantaloni come un guanto ad una mano, e anch’essi volarono via. Eravamo solo io, lei ed il suo tailleur quando tutti i miei dubbi furono fugati. Sotto il suo vestito era completamente nuda e le sue intimità erano curate da un perfetto taglio del pelo biondo naturale a filo. Ebbi solo la possibilità di concentrarmi sui suoi capezzoli grandi quando lei mi balzò sopra senza nemmeno darmi la possibilità di diventare duro appieno, mentre lei era già completamente bagnata e aperta alle mie più intime reazioni. Quando ancora mi morse l’orecchio destro avvinghiandosi a me con tutta la sua forza, io persi la testa e mi alzai in piedi, con lei abbracciata a me, con il mio pene dentro di lei la riversai sulla scrivania, portando via tutto quanto fosse presente, carte, fascicoli, fogli, penne tutto prese il volo …. Anche il cellulare saltò via e mi concentrai su di lei con tutto me stesso. Ero ancora intento a riavermi dal piacere finalmente di possedere una professionista del sesso trasgressivo, vedendo i suoi seni che ritmicamente si muovevano i senso circolare, quando sulla mia schiena avvertì il calore di due seni grandi e succosi. La segretaria si aggiunse al divertimento già pronta ad entrare in partita a gioco iniziato e fui sorpreso nel sentire che abbassata dietro di me era intenta a leccare il mio ano con la sua lingua dura ed appuntita facendomi provare un piacere interno fortissimo, tale da rafforzare i colpi di bacino verso la professionista che gemendo, mordeva un libro del codice civile fino a strapparne dei pezzi con violenza. La segretaria mi invitò a rivolgere a lei delle attenzioni che non le potevo ancora dedicare, ma alla fine anche lei ebbe il suo compenso; il mio pene finì nella sua bocca aperta e lei seduta in ginocchio davanti a me mi ripulì di tutti gli umori che la colpevole avvocatessa mi aveva lasciato sopra. L’avvocato perverso si rialzò dalla scrivania e si sedette sulla sua poltrona allargando le gambe come in procinto di iniziare una visita ginecologica, aiutandosi con le dita delle mani si allargava la sua intimità implorando qualche attenzione dalla segretaria. Difatti non ci volle molto perché venisse accontentata: la segretaria lasciò per un attimo il mio pene e voltandosi di spalle a me, si mise in ginocchio a leccare la golosa professionista. Capì che l’occasione che mi si presentava era di fare un sesso anale veloce e frenetico senza ulteriori attese e tutto questo mentre la professionista era in pieno godimento. Il mio pene accontentò la segretaria, penetrandola dietro con velocità, ma anche con cura ed attenzione. I suoi capelli lunghi mori furono facile preda da raccogliere nelle mie mani e da usare come briglie di cavallo, la tirai a me, con forza, facendola gemere ancor di più. Quando le due anime furono sazie di avermi dentro, volevo che tutte e due contemporaneamente potessero assaggiarmi finalmente per l’ultima volta e mi posi sopra le loro bocche maneggiandomi per arrivare alla mia venuta finale. Quando fui pronto a godere, io trattenni lo sperma per un secondo e poi lo sparai fuori con ancor più forza colpendo nella gola profonda la professionista avida e con il secondo getto in pieno occhio, la segretaria sfaccendata. Come una vecchia tela dipinta, che ritrae una scena orgiastica, mi vedevo sfinito seduto sul tavolo con le due ancelle che si leccavano i resti del mio sapore, con me, al centro, non privo di lacrime e ferite.
‘’….. e quindi a partire dal mese di novembre del prossimo anno le verranno restituite tutte le somme pattuite con l’aggiunta degli interessi ! …. Signor Jones mi sta ascoltando ??...’’.
…. La professionista del sesso era ancora seduta alla sua scrivania vestita del suo tailleur più prezioso, la finestra aperta su Roma faceva entrare una brezza fresca e umida… ed io mi riebbi da quel pensiero stupendo che mi aveva trasportato in una nuova dimensione. Ero impacciato, ma ugualmente la ringraziai della sua cortesia, per la chiara e esaustiva esposizione del caso avendo capito tutto quanto era necessario sulla situazione. L’avvocato alzandosi con la sua solita sinuosità fece per accompagnarmi alla porta per uscire, mi strinse la mano dicendomi ‘’La ringraziamo di tutto !’’, quando il mio sguardo fu incuriosito dalla presenza sul parquet di un bottone bianco, chiaramente di una camicia … come mai poi la mia cravatta fosse sciolta resta per me ancora un mistero!

CASTELLO DI CRISTALLO di Alice Stregatta



Sono stanca, mi si chiudono gli occhi: ho sonno.
O forse, semplicemente, si sta esaurendo l'autonomia di te.
Ti aspetto, oh se ti aspetto... Continuamente ti aspetto e penso a te.
Sono giorni che non riesco a smettere di sorridere. Mi fa strano, tanto.
Sono giorni felici, da quando sei capitato nella mia vita, per caso o per disegno divino.
Non lo so, non m'importa.
Non conta. Conti solo tu.
Che, adesso, ci sei. Che sei arrivato per restare. Credo. Penso.
Ci credo. Lo voglio.
Io, che mi nascondo dietro battute taglienti, ho paura che tu ti accorga che non sono così speciale come sembro.
Che sono un'insicura rompiscatole.
Che ho tutti i difetti del mondo, più uno.
E tu, a quanto pare, solo tre...
A me, che non ti ho dato fiducia, ma ti ho solo concesso il beneficio del dubbio.
A me, che dopo ogni carezza, dopo ogni tenerezza, aspetto una pugnalata, un silenzio, un'assenza.
Che non arriva.
Arrivano solo parole dolci, lievi, tenere, profonde.
Da te, che sei caparbio.
Da te, che ci sei davvero e me lo dimostri ogni minuto.
A noi, che stiamo costruendo insieme un castello di cristallo.
Trasparente.
Che sembra fragile, ma non lo è.
A noi.
Da ieri, da prima, da sempre...
A poi.

CROLLO PSICOTICO DI Alice Stregatta



Era bastata una semplice frase per catapultarla indietro nel tempo, al pugno nello stomaco, alla fine delle illusioni, al giorno in cui tutto crollò.
Un castello di carte e bugie, non detti e omissioni.
Tradimento, umiliazione, sgomento, smarrimento.
Un giorno come tanti, il primo di molti. L'inizio della fine.
Parlava con lui ma si rivolgeva a sè stessa, all'uomo che l'aveva ferita a morte, uccisa. Assassinata. All'uomo in cui credeva.
Nelle mani del quale si era affidata: colui con il quale aveva costruito una famiglia. Il suo punto di riferimento e la sua ragione di vita.
L'uomo che avrebbe dovuto proteggerla, amarla e onorarla ogni giorno della sua vita.
Minchiate. Tutte minchiate.
Aveva ignorato e ingoiato milioni di bugie nel corso degli anni.
E, in quell'attimo, fu come (ri)trovarsi in punto di morte: quando in un minuto ti scorre davanti il film accellerato di tutta la vita.
Bugie. Non detti. Omissioni.
Triplo giro di frittata con avvitamento, che neanche Gordon Ramsey... Arrampicate sugli specchi in solitaria.
Aveva giurato a sè stessa di non accettare mai più la minima imprecisione, incongruenza, discrepanza... Mai più...
Si sentì assalire dal terrore, svuotata di ogni energia e forza di reagire. Ebbe solo voglia di scappare e respingerlo e richiudere quella porta che lui aveva scardinato senza fatica alcuna. Perchè lei lo stava aspettando da sempre.
Aspettava Lui, non uno come lui. Lui lui lui. E più sapeva di volerlo e amarlo, più lo spingeva fuori con una furia cieca, tra lacrime che scendevano copiose e singhiozzie urla silenziose, sfidandolo,
augurandosi, sperando, pregando che lui non se ne andasse.
NON-ANCHE-LUI.
Che non le lasciasse la mano che aveva promesso di tenerle stretta, le dita talmente intrecciate ad imbiancare le nocche, bloccare la circolazione, le dita cianotiche...
Supplicava ad ogni insulto: tienimi, ad ogni stilettata sarcastica: non andare, ad ogni vattene: resta. Ad ogni cattiveria: scuotimi.
Resta con me.
Resta con me...
Amami.
Amami, anche se sono un disastro.
Amami, anche se non abbiamo futuro.
Amami, anche se il per sempre non esiste.
Amami... Anche se sono un'insopportabile rompiballe col bisturi stretto in pugno. Vivisezionando emozioni e parole.
In fondo, quel bisturi era puntato più verso sè stessa che non contro di lui.
Autolesionismo sentimentale.
Autosabotamento.
Profezia autoavveratasi.
Chiedeva aiuto insultandolo.
Chissà se lui l'aveva capito.
Chissà se l'aveva capita.
Chissà...


MASSAGGIO ROMANTICO di Asianne Merisi




Possa fare un passo,
nell'eterno respiro che regola il cuore
mentre vorrei vestirmi 
divento anima dentro la tua mano
che lascerò sul letto
lì dove c'è la mia impronta e la tua
Senza fuoco avrei troppo freddo,
Vorrei racchiuderti è guardarti solo io
io quella che vorrebbe averti indosso e
assorbire il colore dell'amore che vivo insieme a te
Dimmi di si,che lo puoi fare, che puoi amarmi
oltrepassando i limiti,creando un capolavoro,
sono diverse le strade
se non vengono insieme percorse
allora tu raggiungimi............ti stò già aspettando
..oltre.

COME BABBO NATALE FINITO IL TURNO DI LAVORO SOLITARIO RIENTRA A CASA di Sara Zanchetta



Ormai di questi tempi
Perfino le renne son troppo stanche
E la magia...quella costa uno sproposito.
Nell'aria umida della città,
tra i vapori caldi della metro,
nel rumore lontano della coincidenza persa
attende, solo, il treno verso casa.
E lo attende sapendo, in fondo, che arrancare la corsa per la consegna degli ultimi due regali, dopo 18 ore di lavoro, gli ha fatto perdere l’ultimo treno della notte.

“Aspetta e spera”
Gli sembra di sentir sussurrare dalla bocca balbuziente
del Bacco stanco sulla banchina dirimpetto.
“Dovrai aspettar mattina ormai”
L’altro dice e l’altro ride.
S’era dimenticato per un attimo di come la gente sia sempre brava a ridere – di te.

Come Babbo Natale
Sconsolato, stanco e malaticcio,
attendo il mio treno per Spring Street.
Aspetto l’aria calda che lo precede.
Una tubatura perde.
Sembrano terzine di quarti in battere.
Attendo sperando che qualcuno,
per una volta, la sorpresa la faccia a me
(o te caro Babbo Natale).

Brutta cosa dover attendere un treno:
ti vengono in mente tutti i motivi per cui sai che nessuno si ricorderà di te.
Cola pure il naso.
E siamo senza fazzoletto

OGGI di Alice Stregatta




Oggi ho sentito la tua voce, ho ascoltato le tue parole, la tua risata (felice, imbarazzata, limpida).
Oggi ho aggiunto un dettaglio al quadro che sto dipingendo di te... Sommandolo alle cose scritte, dette, sentite, provate per iscritto. Alla tua immagine.
Oggi ho desiderato incastrare quell'ultimo tassello: assaggiare la tua pelle, inebriarmi del tuo odore, lascarmi imprimere il tocco delle tue mani.
Guardarti negli occhi dopo un bacio, sprofondare nella tua anima durante l'amplesso, riemergere da un tuo abbraccio.
Perdermi per te, in te, con te.
Ritrovarmi.
Rinascere a nuova vita.
Alice 2.0.
Ci stai, a bighellonare con me nel mio giardino segreto, di cui solo tu possiedi le chiavi?

QUELLA DONNA di Asianne Merisi




Disegnata dalla lingua di un poeta
che si tormenta,perché ti sogna nuda
sotto un tronco di ciliegio, è dai sfogo ad una sporca fantasia.
brilli mentre voli via,e non ti curi mai di ritornare,
e quando inaspettatamente torni,
doni soltanto un petalo, un petalo ......si.
Lasciati guardare,guardarti di spalle,
guardarti quando mi volto,così potrai sorridermi,
ti desidero ancora nuda,,tu per me sempre nuda,
spoglia di pudore,spoglia delle solite paure.
Ed io nel desiderio sospirerò di schiena.
Desiderandoti!
..oltre♥

LA PAURA FA NOVANTA di Alice Stregatta




Era notte fonda, uscì di casa, prese la macchina e si fermò davanti alla caserma dei carabinieri. Scampanellò e attese.
Un uomo in divisa biascicò qualcosa al microfono, seguirono un ronzìo sinistro e lo scatto del cancello. La squadrò da capo a piedi: era in pigiama.
"Mi mancava una matta alle due di questa notte tempestosa..."
La fece accomodare.
Lei scoppiò in un pianto dirotto... E lo inondò di lacrime e parole.
"Agente, sono disperata, io non volevo. Io non sapevo... Io: posso avere un bicchier d'acqua per favore?"
"Signora, si calmi, vuole sporgere denuncia?" Le mise una mano sulla spalla porgendole il bicchiere; lei si alzò di scatto, rovesciandoglielo sulla divisa, e lo abbracciò singhiozzando.
Omammasantissima...
"- Lui, lui c'è riuscito, capisce?
Ma io non volevo, non volevo. Ho paura. P A U R A !
Doveva chiedere: non l'ha fatto!
Ha iniziato a parlarmi, dice tutte le cose che ho sempre dediderato sentire. Lui mi conosce. Credo mi abbia spiato per poter usare tutte le mie metafore. È un pazzo, capisce?
Un pazzo!
- Immagino di si, ma non capisco, cosa le ha fatto quest'uomo?
- Mi ha stregata! E io sono una stracazzo di stregatta! Non doveva permettersi... Io non dovevo permetterglielo!!!
Avevo sbarrato gli ingressi, avevo messo catenacci e lucchetti e filo spinato e allarmi sonori e protezioni di ogni sorta. Ero al sicuro, cazzo! Al sicuro...
Ma no, il signorino ha trovato la combinazione che non conoscevo nemmeno io! E l'ha usata. L'ha U-SA-TA!
- Signora scusi, lei lo ha fatto entrare in casa e lui ha aperto la cassaforte? Le ha rubato qualcosa? Prendo appunti se ricorda cosa c'era dentro...
- Ma quale cassaforte, agente, lei non mi ascolta!!! È entrato in me! E adesso mi passeggia dentro... Mi aggroviglia budella e pensieri. Mi tocca l'anima, la fa vibrare... Io lo sento risuonare e rimbombare ovunque... Fa un sacco di rumore. Mi invade, mi colma, mi riempie, mi placa, mi consola, mi appaga... Mi accarezza, mi stringe, mi coccola e fa l'amore con me. C'è senza esserci.
Mi rende felice.
Mi fa sorridere: le assicuro che non ho un cazzo da sorridere, mi creda!
E mi manca, ho voglia di stare con lui tutto il tempo... Non mi basta mai. Appena va via aspetto che torni.
E se poi non ritorna?
Capisce che sono in pericolo?
Lo capisce?"
"- No signora- sospirò- non lo capisco... Io pagherei per vivere quello che le é capitato. Quello che sta vivendo.
Se lo goda. Gli stati di grazia durano un secondo e si rimpiangono in eterno..."
La accompagnò al cancello, si assicurò che salisse in macchina, le sorrise... E invidiò quella matta di Stregatta, la sua follìa, le sue emozioni... Invidiò lui.
Invidiò persino la sua paura.

( E questo è il mio primo sogno su di te...)

NEMICI IN BELLISSIMA VESTE di Asianne Merisi




Il tempo è passato,
la ragione non ha più parole.
I falsi che ci guardano con il loro sorrisi sfilacciati,
son fiocine che trapassano la nostra anima.
con sguardo ambiguo,
ti augurano la felicità,
ma condita di tristezza. perchè non sanno vedere te,
con più felicità di loro stessi
Vorrei che nel petto mio ci fosse il più potente antidoto
per tener lontano il loro potente veleno
Ma dentro di me pulsa solo un cuore,povero d'odio
E così, mentre loro uccidono,
A me non resta che continuare
a morir d'amore!
..oltre

LA PRATICA PIU' ESTREMA di Angelo Lancelot




La pratica più estrema di BDSM che io conosca è l'abbraccio. 
Un nodo inestricabile, lama che taglia la pelle e arriva dritta in fondo al cuore ma subito dopo risana ogni ferita. 
Chiama alla resa incondizionata l’abbraccio. 
Non ha bisogno di parole di salvataggio, né di forbici o di ghiaccio: il più pericoloso dei subspace.
Se sbaglio, quando sbaglio, uccidimi di dolore, plagia la mia mente, prendi la mia anima e stracciala, fa di me ciò che vuoi. Ma non farmi più mancare il tuo abbraccio.
Dopo quell’abbraccio io non ho resistito: in quel momento ero decisamente tuo, tu mia.

UN TATUAGGIO E' PER SEMPRE di Alice Stregatta



Il ronzìo della macchinetta e il sottile dolore dell'ago che penetrava nella carne la stavano cullando, portandola ad un livello di piacevole dormiveglia. Una specie di limbo che faceva vagare la sua mente... Bzzzz
Alternava la visualizzazione del tatuaggio a un milione di pensieri che cozzavano, si accavallavano, sparivano e tornavano ad affacciarsi nella frazione di un nanosecondo...
Bzzzz... Il respiro regolare, l'abbandono al piacevole dolore la distraevano dal suo stato di disperazione e le facevano desiderare sofferenze ben più concrete.
Desiderava stilettate profonde. Segni violacei. Striature e lividi.
Il sibilo della frusta, lo schiocco della cinghia, il fruscìo delle corde a segarle la pelle... Gemiti soffocati emessi attraverso la gag ball, la saliva a colarle dalla bocca semiaperta. Lo sguardo implorante, a pregarlo di smettere e di continuare... L'altalenante bisogno di piacere e dolore.
Pausa e ripresa.
Presa e ripresa. Goduta e usata.
"Ancora..." Gemette
"Manca ancora un'oretta", pronunciò una voce ovattata che si fece strada tra le sue fantasticherie e la catapultò nuovamente sul lettino nello studio del tatuatore, illuminato a giorno.
Gli sorrise di sottecchi, sorrise tra sè...
Ancora...
Ancora un'ora e finalmente avrebbe avuto il Suo nome tatuato nell'incavo dei reni.
"STRONZO", perché gli si addiceva.
Stronzo, perché se la loro storia fosse finita, poteva andar bene per chiunque...
Il Suo Stronzo.


OMBRE di Andrea Rossi




La mente ripercorre le ombre
lasciando filtrare la luce
un sorriso
dimenticato in fretta
svegliando
una sensazione
che brucia ancora
un ricordo
una scusa
attimi
pensieri
sospesi in aria
canne al vento
indifesi
come certezze
alito di vento
un respiro
che prende forma
plasma la mente
in un percorso
un desiderio.

SINDROME DI STOCCOLMA di Alice Stregatta




Prendi la mia mente in ostaggio, non renderla per nessun riscatto, seducila e seviziala. Plasmala a tuo piacimento. Penetrala e invadila. 
Una volta soggiogata, il mio corpo ubbidirà ai tuoi comandi.
Vibrerá al solo pensarti, si schiuderá al tocco delle tue mani.
Il mio cuore batterá, segregato, solo per te.
Vivró pendendo dalle tue labbra, mi nutrirò delle tue parole, mi disseterò con i tuoi baci.
Riposerò protetta dal tuo abbraccio.
Mi sentiró libera perché legata a te da un filo da pesca.
Invisibile, incorruttibile, indistruttibile,impossibile da spezzare.
Non si sfilaccia, se lo tiri ti penetra più a fondo nella carne, si aggroviglia alle viscere, non può essere rimosso se non tranciato di netto.
Io, tua prigioniera, tu, il mio splendido aguzzino.
Saremo un tutt'uno, indissolubilmente uniti dalla nostra passione.
Dall'amore.
Tua. Mio.

PENA MAI-UN COLPO DRITTO AL CUORE di Giuseppe Balsamo



“Minchia è pieno di sbirri”.
Questo pensava Renatino, gli occhi chini su un tascabile stropicciato.
Il caldo proveniente dall’asfalto bollente e dai treni in transito gli stava inzuppando la camicia jeans. Ad ogni passaggio degli uomini in divisa, il sudore diventava gelido provocandogli brividi alla schiena.
Quegli occhi, per cui era diventato famoso, ora li aveva mascherati con un vistoso paio di occhiali da vista, la barba gli donava l’aria da intellettuale.
Lesse e rilesse quella frase, scritta da lui tre anni prima:”FINE PENA MAI ”. Come fosse sotto dettatura, ascoltando i giudici pronunciare in aula la sentenza che segnava il suo destino. Restò seduto a sentirla, rifiutandosi di alzarsi, intento a scarabocchiare la fine della sua esistenza.
Sollevò lo sguardo soltanto dopo aver udito lo sferragliare del treno, si alzò con la maggior naturalezza possibile, sotto gli occhi inconsapevoli degli sbirri. Con il capo chino, salì gli scalini che lo separavano dal convoglio, rintanandosi nel primo cesso libero. Aveva paura, ogni rumore, ogni voce, oltre quella porta, lo faceva sobbalzare. La vedeva spalancarsi all’improvviso, gli sbirri senza nemmeno parlare lo riempivano di piombo, lasciandolo morire dissanguato in mezzo al piscio.
Seduto sulla tazza, la mano infilata dentro la logora sacca ad impugnare la pistola, restò così finchè non avvertì il movimento del convoglio. Tirò fuori la nove corta. Il metallo freddo, come sempre, lo rassicurava, gli dava un senso di onnipotenza. Ogni volta che impugnava un’ arma sentiva profonda l’esigenza di “scarrellare”; quel suono metallico, inconfondibile ed unico, lo faceva sentire euforico ed invincibile. Evitò di farlo, limitandosi a constatare che il colpo fosse in canna e la sicura inserita.
Gli mancava l’aria, si sentiva soffocare dalla sua inadeguatezza patologica. Passò le dita sulla barba e sotto le narici; sentendo quell’odore intenso. Odore di fica e paura. Il pensiero gli andò a quella mattina, mentre le rotaie scorrevano verso il tramonto.
Malvolentieri sciacquò mani e viso, avrebbe preferito trattenere quell’odore, ma il caldo era insopportabile.
In realtà erano mesi che progettava il tutto. Da quando si era reso conto che quella guardia pendeva dalle sue labbra. Gli aveva fatto un sacco di promesse, così Tonino aveva nascosto in infermeria la nove corta. Più problematico era stato farsi ricoverare.
Aveva atteso che ci fosse qualcuno a soccorrerlo e mandato giù la candeggina, anche quella dono del buon Tonino. Il bruciore lo aveva invaso, i conati furiosi ed il suo corpo in preda agli spasmi, avevano richiamato l’attenzione di una guardia. Era stato portato in infermeria: salvato dalla lavanda gastrica.
Quella mattina non aveva fatto altro che recuperare l’arma e scatenare il putiferio. Verso le nove, era stato accompagnato dalla psicologa, una brunetta tutte curve che provocava i detenuti di continuo. La stronza indossava sempre vestitini succinti, adorava prendersi gioco di loro. Insomma una vera puttana sadica. Renatino la odiava. Quella mattina portava un abitino nero aderente, con le cosce di fuori. Per stare tranquilla e poter far meglio la troia, lasciava gli agenti fuori, così aveva campo libero nei suoi giochetti psicologici, godendo nel far arrivare il cazzo in gola ai detenuti.
Non appena soli, la dottoressa non fece in tempo a parlare che si trovò la pistola puntata ed una mano a tapparle la bocca. Renatino la fece alzare:”Se stai zitta forse non ti ammazzo”. Puzzava di paura come una cagna, fu questo a farlo uscire di sé. Non seppe resistere, così le insinuò la mano tra le cosce, trovando il pizzo degli slip:”Ora mi diverto un po’io, cosa si prova ad avere paura?”. La costrinse sulla scrivania, il viso schiacciato sul tavolo. Quando ebbe le mani bagnate dalla sua fica, si slacciò i pantaloni. La penetrò a fondo:”Stai zitta troia o ti ammazzo!”.
Guardandola lacrimare, non ebbe pietà, volle umiliarla ancora. Tirò fuori il cazzo e, con violenza, le penetrò l’ano, mentre lei si mordeva le labbra per il dolore. Le scopò il culo, come una bestia, abbandonandosi ad un orgasmo cupo e selvaggio, marchiandole l’anima.
Quando ebbe finito, il resto fu semplice: una guardia azzoppata, la dottoressa scaraventata sul marciapiede, la corsa verso la libertà.
”Fottuta troia, te la sei voluta!”, quelle parole gli uscirono ciniche, terribili: una sorta di auto assoluzione.
Trascurando il puzzo di merda, Renatino aprì libro tascabile, tirò fuori la foto consunta di un’altra donna, accarezzandola amorevolmente. Erano tre anni che fantasticava su di lei, alternando sentimenti contrastanti, avendo però un unico pensiero: raggiungerla.
L’aveva conosciuta a Genova, ove era diretto, in un periodo in cui per motivi di “onesto” lavoro vi si era pressoché trasferito con tutto il suo clan, amava definirla così la sua banda.
Chantal, la femmina della foto, l’aveva incontrata in un night. Faceva la bagascia, non nei bassi tra i vicoli bui, ma quello era tuttavia il suo mestiere. Si era innamorato di una puttana.
Una troia a ed un figlio di troia: un’accoppiata vincente.
Sentendosi più tranquillo, decise di uscire dal bagno e trovarsi un posto:”E’ libero?”. Lo scompartimento in realtà era vuoto, c’era solo quella donna con il viso rosso di chi ha appena versato molte lacrime. Odiava le donne che frignano, ma quel posto accanto alle porte di uscita lo rassicurava.
Indossava un abitino color crema, ben si intonava con i capelli castano chiari che le scendevano sulle spalle. Gli occhi, arrossati dalle lacrime, erano color delle nocciole, nel complesso una bella femmina.
Un kleneex ti salva la vita. Dopo qualche attimo di imbarazzante silenzio, Renatino tirò fuori dalla sacca il fazzolettino di carta, consentendole di asciugare le lacrime che non volevano smettere di bagnarle le guance. Ci sapeva fare con le donne Renatino; forse era il suo modo di parlare, oppure la sua capacità di ascoltarle; fatto sta che quelle, magicamente, si aprivano con lui come se si fossero conosciuti da sempre. Così Rossana, che lui cominciò a chiamare confidenzialmente Ros, gli raccontò dell’ultimo appuntamento mancato, di un amore impossibile e precipitato nel nulla, di quel viaggio prenotato per due, che stava facendo da sola. Dopo averla consolata, non sapendo neppure lui come, era persino riuscito a strapparle qualche sorriso, constatando che era più bella quando non piangeva, insomma che era di fronte ad una donna in gamba.
Quando gli occhi azzurri di Renatino finirono sul giornale, ripiegato accanto alla borsetta di Ros, il cuore gli arrivò in gola:”Posso dare un’occhiata?”.
Lei gli porse il quotidiano:”Certo, così nel frattempo piango ancora un po’, sono un disastro!”.
Sorridendole Renatino sfogliò il Corriere. Non si soffermò sulle tante cazzate scritte sul suo conto, ormai le conosceva a memoria, quanto piuttosto sulla foto. Fortunatamente le immagini di archivio e le foto segnaletiche non rispecchiano mai la realtà. Dopo tre anni di quell’inferno era molto cambiato. Ripiegò il giornale, facendo attenzione che la foto non fosse più visibile, rimettendolo al suo posto.
Parlarono ancora, scherzarono soprattutto, concordando che la vita va vissuta e che dopo ogni temporale arriva il sereno. Si fecero insomma buona compagnia in un viaggio difficile per entrambi, con discorsi banali ma confidenziali e rassicuranti.
Gli dispiaceva ma non aveva scelta, conosceva quell’ultima galleria lunga e buia prima della fermata di Genova Principe. La sua mano, veloce, cercò il portafogli di lei nella borsetta e se ne impossessò, aveva bisogno di soldi e subito.
Più frettolosamente di quanto avrebbe voluto, tornata la luce, il treno si fermò e si congedò da lei.
Era già sulla banchina quando la voce di Ros lo richiamò:”Tienilo tu questo…”, affacciata al finestrino, gli tendeva il giornale ben ripiegato. Renatino lo afferrò e le sorrise, notando che Ros gli schiacciava l’occhio complice.
Fuori dalla stazione Renatino constatò con piacere che tutto era come si ricordava. Scelse un bar che già conosceva, ordinò un caffè e curiosò nel grosso portafogli femminile. Constatò soddisfatto la presenza di cinquecento mila lire, poi esaminò con attenzione la carta di identità di Ros, ma soprattutto un tesserino che la identificava come appartenente alla Polizia di Stato:”Uuu uno sbirro, addirittura commissario…”, la cosa non lo sconvolse affatto, anzi lo fece sorridere non facendogli certo cambiare opinione su di lei. Andò a fondo nella perquisizione è trovò quella lettera, ripiegata con cura:
“Caro Paolo, ti scrivo queste poche righe, sapendo che non le leggerai mai…”.
Lesse e rilesse con attenzione, un vero stronzo questo Paolo.
Terminato il caffè acquistò le sigarette, ma anche due buste e relativi francobolli. Nella prima infilò i documenti di Rossella accompagnati dalle scuse del caso; nella seconda la lettera indirizzata a Paolo e mai spedita: certo uno stronzo, ma lei ne era innamorata.
Chantal abitava al solito indirizzo. Quando arrivò era con un cliente; Renatino, con i suoi modi “garbati”, lo invitò a levarsi dai coglioni. Era più bella che mai, fecero l’amore a lungo, assaporò quei momenti e la sua pelle come non faceva da tempo.
Morì veloce Chantal, per lei aveva scelto una lunga lama che le arrivò dritta al cuore:”Occhio per occhio…”. Fu dispiaciuto nel vedere il seno nudo in una pozza di sangue. Le posò un ultimo bacio sulle labbra ancora tiepide:”Ogni tradimento ha il suo prezzo amore mio...”.
Si rivestì con estrema tranquillità, con altrettanta calma scese le scale e ritornò alla stazione.
Direzione Milano, forse sarebbe addirittura arrivato prima della sua lettera, chissà cosa avrebbe pensato Rossella ritrovandoselo in commissariato.
Quell’arresto se l’era meritato, fra tutti gli sbirri era quella che preferiva, ritornare in carcere accompagnato da lei sarebbe stato meno drammatico, ci sarebbe morto in galera questa volta, andarci sotto braccio con la Ros non sarebbe stato così male.
Racconto/Noir


PUTTANE ADDIO di Andrea Lagrein




Entrai nel bar tabaccheria di Gino per comprare le sigarette. Erano le cinque e mezza di un freddo pomeriggio di settembre. Seduto a un tavolino vicino alla vetrina c'era Giorgio, che sorseggiava lentamente il suo bianchino. I nostri sguardi si incrociarono e lui mi fece un cenno di saluto con la testa.
Mi avvicinai e mi sedetti al suo fianco, ordinando una birra. Non avevo granché da fare e la sua compagnia era sempre stimolante.
"Sai che giorno è oggi?" mi domandò guardando fuori dal locale. "Venerdì" risposi senza esitare. "Venerdì venti settembre duemilatredici. Già". Il suo successivo silenzio mi incuriosì. "E dunque?" chiesi divertito. Posò i suoi vecchi occhi senza eta su di me. "Dunque son già passati cinquantacinque anni da quel giorno". Lo guardai senza capire.
Giorgio era un uomo di settantacinque anni che di cose ne aveva viste e passate durante la sua vita. Era una sorta di memoria storica per noi altri perdi giorno del quartiere, tipo un vecchio saggio del villaggio sempre pronto a dispensare utili consigli.
Socchiuse gli occhi, come volesse rivivere quei momenti, come se quei momenti non fossero mai finiti. Socchiuse gli occhi e iniziò a raccontare.

Quel venti settembre del 58 uscii presto dalla fabbrica in cui lavoravo. Non volevo perdere tempo, che di tempo ormai ce n'era davvero poco. Corsi a casa e mi feci un bel bagno. Indossai il mio abito migliore, che poi tanto bello non era, ma avevo vent'anni e in casa di soldi ce n'erano pochini. Quindi presi il treno, destinazione Milano. Mi accorsi che, come me, tanti altri avevano avuto la stessa idea. Non si poteva certo biasimarli. Quella puttana di una socialista aveva vinto la sua battaglia e, per tutti noi, dalla mezzanotte di quel giorno, il mondo non sarebbe più stato lo stesso.
Avevo in tasca due mesi di stipendio. Una bella fortuna per quei tempi, non c'è che dire, ma vacca troia quel giorno sarebbe rimasto negli annali della storia, e io volevo celebrarlo come si conveniva.
Sceso dal vagone, mi diressi subito in Brera, via Fiori Chiari. La Lidia sarebbe stata la prima, e non poteva essere altrimenti. La Lidia era la puttana che mi aveva fatto diventare uomo, sì, insomma, quella che mi aveva sverginato. Non un grandissimo momento, lo riconosco, che forse non son durato nemmeno un minuto. Ma da allora rimase per sempre la mia Lidietta, e ogni mese tornavo a farci una bella visitina.
Lavorava nella casa della sciura Beatrice, un baldraccone grande e grosso sfatto dall'età e dalla professione, buona solo oramai per fare la tenutaria di bordelli. Madame, si faceva chiamare pomposamente, alla francese, lei che di francese non aveva nulla, lei che in Francia non c'era mai stata. Ma non aveva importanza, che per me, l'importante, era di chiavarmi la mia Lidietta.
In via Fiori Chiari c'era già un bel via vai di persone, nonostante fosse ancora presto. Ma quel giorno era speciale e si vede che ognuno voleva dare un ultimo saluto a chi per una o per decine di volte l'aveva fatto sentire bene.
Entrai nella casa di Madame. Appena mi vide mi sorrise compiaciuta. Evidentemente si aspettava proprio che io arrivassi. Si avvicinò ancheggiando il suo enorme culo e mi accarezzò un braccio. "Te la vado a chiamare immediatamente, Giorgio. Cosa vuoi fare? Una singola, una doppia, una mezz'ora?". Le pagai il dovuto. Mezz'ora con la Lidia. Non è che potessi permettermi molto di più!
Lei arrivò subito dopo. Il cuore mi pulsava all'impazzata, non tanto perché stessi per scoparmela, ma in quanto sarebbe stata l'ultima volta.
Era bellissima in quella sua vestaglia trasparente, le forme piene e generose, la pelle candida, i capelli color del mogano e gli occhi azzurri come il mare, io che il mare non lo avevo mai visto. Il suo sorriso mi scaldò subito il cuore. Il suo abbraccio mi fece impazzire. "Speravo proprio di vederti oggi, Giorgio" mi sussurrò all'orecchio. Arrossii di piacere. Per nulla al mondo avrei mai rinunciato a quell'ultima volta.
Prendendomi per un braccio mi accompagnò su per le scale fino alla solita stanza. Dalle porte attigue si potevano ben sentire gli ansimi di chi aveva avuto la mia medesima idea. Non so come spiegarlo, ma una sorta di strana tristezza mi avvolse improvvisamente. Avevo la netta percezione che il mondo fin lì conosciuto stesse definitivamente dissolvendosi.
Ma appena entrato in camera tutto svanì come d'incanto davanti a quel corpo meraviglioso. Mi sorrise maliziosa. "Sta calmo, Giorgio. Abbiamo mezz'ora. Non bruciare tutto in un minuto" disse scoppiando a ridere.
A dire il vero di stare calmo non ne avevo la minima intenzione. Il suo culo, le sue tette, le sue cosce avevano il potere di infiammarmi completamente e non sarei riuscito, ne ero certo, a resisterle a lungo. Le lasciai appena il tempo di sbottonarmi i calzoni. L'afferrai per le natiche e la impalai lì in piedi, senza perdere tempo, con un desiderio che quasi mi stordiva.
La fottei con furia selvaggia, tenendola sollevata con le mie braccia duramente allenate in fabbrica. Lei stessa, esperta mestierante, fu sorpresa da quella mia foga fuori dal comune. Ma del resto, quel giorno, nulla sarebbe stato ordinario.
Poco prima di venire mi staccai. Contro ogni buona regola, non avevo messo il preservativo. Ma la voglia era così tanta che si sarebbe potuta fottere pure la sifilide!
La feci sdraiare sul letto. Le sue gote erano arrossate e accaldate, per lo sforzo, per il piacere, per l'orgasmo raggiunto. Mi inginocchiai fra le sue gambe. Dio, non scorderò mai la luce dei suoi occhi in quel momento. Lidia era appagata, frastornata, eccitata, divertita, lusingata. Lidia era semplicemente la ragazza più bella che avessi mai visto. E faceva la battona nella casa di Madame!
La sua professionalità però non venne meno nemmeno in quella circostanza. "Ricordati il preservativo, Giorgino. Abbiamo già rischiato prima, non vorrai mica farmi un bel regalino proprio quest'ultimo giorno, eh?". Scoppiammo a ridere insieme. Sembavamo proprio una gran bella coppietta, di quelle che vanno al cinema il sabato sera o si fermano a un tavolino di un bar a bere gazzosa e chinotto, felici contenti e innamorati.
Non persi tempo e, come sospinto da un urgenza incontrollata, affondai in lei scopandola con colpi vibranti. A ogni affondo i nostri ansimi divenivano sempre più prepotenti, sempre più indemoniati. Le stringevo il culo con una mano, mentre con l'altra, fra i suoi capelli, mi aiutavo nelle spinte. Era come se volessi entrare per sempre in lei, lei che era la mia puttana, lei che era stata la mia prima donna.
Il tempo divenne superfluo. Non v'erano più secondi, minuti, mezz'ore, ore. Semplicemente il ticchettio dell'orologio ormai non aveva alcun senso. Fottevo per dimenticare. Scopavo per ricordare. Chiavavo per non piangere. Non sapevo cosa fosse l'amore, ma ciò che provai per la Lidia, in quegli istanti, con quel nome lo chiamai.
Venni, venni copiosamente, venni urlando in un grido roco, carico di desiderio, di appagamento, di disperazione. E lei venne insieme a me. Un orgasmo pieno di nostalgia, colmo di piacere. Con i corpi sudati ci sdraiammo l'uno di fianco all'altra, a fissare il soffitto, silenziosi, pensierosi.
"Cosa farai da domani?" chiesi frantumando quel silenzio così rumoroso. Lidia sospirò. "Non lo so ancora. Ho avuto mesi per pensarci, ma alla fine ancora non so". Si voltò a fissarmi, sorridendomi con tenerezza.
"Un mio cliente mi ha proposto di andare a lavorare in una filanda del suo paese. Dalle parti di Legnano, se non ricordo male. E di tanto in tanto mi verrebbe a trovare pagandomi per il disturbo" mi disse ridendo tristemente. "Sì, insomma, continuerei a fare la puttana clandestina, mentre di giorno mi spaccherei la schiena in officina. Magari troverei anche un moroso, che tanto da quelle parti mica sanno il lavoro che ho fatto".
"Ti sposo io, Lidietta. Mi prenderò cura io di te". Parlai di slancio, con veemenza, sull'onda del momento. Scoppiò a ridere accarezzandomi il volto glabro. Anche lei sapeva che era una stronzata, gettata lì figlia della scopata appena conclusa. I miei vent'anni non mi rendevano credibile e, a distanza di tempo, devo dire che aveva ragione. Non l'avrei mai sposata una puttana che quelle cose, al mio paese, non si facevano mica. Va bene chiavarsi una troia, ma portarsela in casa mai!
E così terminò quell'ultima mezz'ora con la mia Lidia. Il tempo era tiranno e gli affari erano sempre affari. Mi ritrovai presto in strada, ancora intriso dell'odore della sua fica e una tristezza che non voleva sapere di andarsene.
Con quel poco che mi era rimasto in tasca riuscii a farmi altri due bordelli. Roba spiccia, roba di poco conto, un ultimo saluto a un'era che si chiudeva. E difatti, a mezzanotte, calò il sipario sulla Lidia e le altre, su di me e noi altri.
Da un ambulante comprai un bicchiere di barbera e rimasi lì, in quell'angusto vicoletto di Brera, a osservare le luci dei portoni delle varie case spegnersi definitivamente. D'improvviso mi accorsi che di fianco a me c'era il Renato, mio compaesano. Aveva quasi le lacrime agli occhi. Gli offrii quel che rimaneva del mio bicchiere.
Poi, senza che alcuna parola fu scambiata fra noi, scoppiammo a ridere, come folli, come imbecilli. "Puttane addio" iniziò a gridare Renato. Subito lo imitai. Puttane addio, puttane addio, puttane addio, gridavamo correndo lungo la strada, salutando tutti i bordelli che in quegli anni ci avevano ospitato. Puttane addio! E come di rimando, molte si affacciavano dalle finestre delle loro stanze, chi salutandoci, chi sfottendoci, chi maledicendoci, chi ridendo, chi piangendo, chi solo per guardarci. Puttane addio!

Socchiuse nuovamente gli occhi, assaporando quegli istanti di dolci e tristi ricordi. Con gesto istintivo gli posai la mano sulla sua, in un tocco carico di tenerezza. Chinò il capo in avanti. Le sue folte ciglia candide di vecchiaia tremarono nel tentativo di fermare le lacrime.
Finii d'un solo fiato quel che rimaneva della mia birra. Mi alzai e me ne andai, lasciandolo solo con i suoi ricordi, i suoi sogni, la sua Lidietta. Era giusto così, in fondo.
Appena uscito dal bar mi accesi una sigaretta e mi incamminai verso casa. Scoppiai a ridere. Avevo davanti ai miei occhi l'immagine di due ragazzi nel pieno della loro esuberanza, che gridavano al cielo la fine di un'epoca.
Puttane addio!