L'ULTIMA CORSA di Giuseppe Balsamo (racconto a puntate)







CAPITOLO I


Quando cominciò a suonare il campanello dell’appartamento all’ultimo piano, dopo insistenti telefonate da parte del vicinato, l’ispettore Leanza presumeva già cosa avrebbe trovato. “Fottuti pivelli”, aveva lasciato in strada gli agenti che per primi avevano risposto alla chiamata via radio e che non erano riusciti ad entrare nell’appartamento, affermando che non c’era nulla di strano. Eppure l’odore dolciastro di morte galleggiava come marmellata densa e vischiosa per tutto il pianerottolo, inducendolo più volte a piegarsi per i conati di vomito. Dopo varie insistenze lei gli venne ad aprire: indossava una vestaglietta squallida a fantasia floreale che le lasciava scoperte le gambe, il volto magro e vistose occhiaie violacee non riuscivano a nascondere del tutto la sua bellezza. Appena lo vide, la donna, scostò una lunga ciocca di capelli unti dal volto. Anche lei ormai puzzava di putrido, di sporco e sudore, di disordine e tristezza. La casa era a soqquadro, quando lo sbirro entrò, chiudendosi la porta alle spalle, notò la cucina sporca, il tavolo con rimasugli di cibo risalenti ad alcuni giorni prima ed il lavello pieno di stoviglie non lavate. Anna Barolo in Palmisi, silenziosa e con lo sguardo fisso nel vuoto, si accasciò su una poltrona, portandosi le mani al volto e scoppiando in un pianto disperato e liberatorio.
L’ispettore Leanza, dopo aver acceso alcune luci nella casa semi buia, non ci mise molto a comprendere da dove veniva quell’odore. In camera da letto il cucciolo di gatto era intento ad annusare una piccola pozza di liquido marroncino, risultato della trasudazione di un vecchio tappeto persiano arrotolato. Rocco Palmisi era lì dentro, avvolto come una mummia, la testa infilata in un sacchetto per la spesa azzurro, chiuso con del filo elettrico, all’altezza del collo. Il corpo era gonfio per lo stato di putrefazione avanzato; quando il graduato srotolò il tappeto, quella puzza che ormai conosceva molto bene, invase completamente l’appartamento, rendendo l’aria irrespirabile.
Non gli restò che chiamare il magistrato di turno ed avvisare i colleghi della scientifica, portando con se' la donna, così come si trovava, permettendole solo di indossare un paio di scarpe da ginnastica. Lungo il percorso che portava dalla di via Barbaroux fino alla sede torinese della squadra mobile, nessuno pronunciò parola, ma non appena entrata nell’ufficio dell’ispettore, Anna si levò il peso che ormai da circa una settimana la opprimeva. Confessò di aver ucciso il marito, di aver aspettato che si fosse sbronzato, cosa che comunque faceva quotidianamente, divertendosi poi a picchiarla con gusto. Spiego', con dovizia di particolari, di avergli rinchiuso la testa nel sacchetto di plastica, per poi strangolarlo nel sonno.
L’ispettore non fece altro che ascoltare e trascrivere la confessione, limitandosi a poche domande, ricostruendo la scena nella sua testa, rivivendola a sua volta. Era il suo difetto peggiore: non riusciva a starne fuori, si gettava a capofitto in quelle vicende, diventando assassino e vittima, cosa peggiore a volte anche giudice.
Ormai erano quasi le due di notte quando Antonio Leanza le portò una tazzina di caffè bollente molto dolce. Ormai le carte le aveva messe a posto, il caso era semplice e lineare, come succedeva di rado. Osservava quella donna trasandata e distrutta dalla vita, a volte il suo mestiere proprio non gli piaceva, il pensiero che da lì a breve sarebbe stata rinchiusa in una cella alle Vallette non gli andava giù, ma non poteva farci nulla. Le offrì il piccolo bagno presente in ufficio per darsi una sistemata, dicendole che le avrebbe fatto avere alcuni effetti personali in carcere, poi rimase sulla porta osservandola mentre la portavano via.
Il suo ultimo giorno alla omicidi, dopo tutto era stata una cosetta facile per chiudere in bellezza, dalla mattina successiva si sarebbe occupato solo di puttane e pappa, una prospettiva per niente allettante, ma amava fare di testa sua e la cosa non era stata per nulla apprezzata, così si era ritrovato silurato a fine carriera.

Quando uscì dalla Questura, pensò bene che il modo migliore per cominciare alla buon costume sarebbe stata una visitina al “Pink Panther”, non era lontano ed un po’ d’aria fredda gli avrebbe fatto bene, si sentiva ancora addosso quell’odore schifoso, lo sentiva sugli abiti, nelle narici, sulle mani.
Non aveva mangiato nulla, non aveva appetito, voleva solo fumare, soprattutto voleva bere. Gli piaceva il centro di Torino a quell’ora, il freddo pungente non gli dava fastidio, aveva un buon effetto in quella situazione, gli faceva compagnia nella sua solitaria passeggiata. Si osservò riflesso nelle vetrine: era stanco, era vecchio, non aveva sonno e soprattutto era solo.
Un vecchio tram sferraglio' nella notte, sgangherato e vecchio, gli permettevano comunque di percorrere le antiche rotaie, evidentemente per il puro gusto di vederlo morire in quella città marcia di notte e bella di giorno.
Si sentì anche lui come quel vecchio cumulo di ferraglia, gli permettevano di consumarsi per il solo gusto di analizzare sapientemente la sua autodistruzione.

Il “Pink Panther” era uno dei night storici della vecchia città, nulla di particolare, però conosceva ormai da tempo immemorabile l’anziana tenutaria, con cui scambiava sempre le solite battute. Quando lo vide entrare la signora Bea preparò il solito “baby” con ghiaccio, lo posò sul bancone seria:”Antonio stai sempre meglio, devo dire: un fiore, non è ora di andare a dormire?”
Leanza non le rispose, afferrando il bicchiere, con un cenno della testa la invitò ad aggiungere un’altra buona dose di distillato ambrato, poi con gli occhi diede un’occhiata al locale semi vuoto.
“Stanotte è moscia, non c’è nessuno puoi andare tranquillo”, Bea indicò a la saletta tranquilla e buia dove si appartavano i clienti con le ragazze.
L’ispettore si alzò, prese posto ad un tavolino vicino ai cessi, poggiò il bicchiere ed andò a pisciare. Ormai era un’abitudine, controllava sempre il bagno prima di rilassarsi. La piccola finestra sopra la “tazza” era aperta, si accese una sigaretta mentre si svuotava, inspirando nicotina ed aria gelida, il whisky che stava bevendo a stomaco vuoto, cominciava a dare i suoi effetti.
Al tavolino trovo già seduta Masha, la ragazza russa gli sorrise, vedendolo tornare:”fatti dare una coppetta se ti va”, Antonio si accomodò sul divanetto vicino a lei. Masha gli sorrise allegra, mente Bea quasi come ci fosse stata un’ordinazione telepatica aveva già poggiato un piccolo flute pieno, probabilmente, di acqua colorata.
“Povero il mio Antonio, così stanco!”, Masha sorrideva carezzando la patta dei jeans logori dello sbirro. Con una lunga sorsata, Antonio svuotò il bicchiere lasciandosi andare sul divanetto, immerso nei propri pensieri, ripensando alla sua giornata, mentre la puttana gli aveva già tirato fuori il cazzo dai pantaloni e, solertemente, si era accucciata accogliendolo fra le labbra rosse e carnose.
L’uomo strinse i capelli ramati della ragazza, mentre la sua lingua saettava sulla cappella, le labbra cingevano il glande succhiandolo dolcemente, la tirò su guardandola negli occhi color cielo, un po’ troppo truccati, facendo sì che la ragazza continuasse ad accarezzarlo ritmicamente facendo ingrossare il cazzo dell’uomo fra le sue mani.
“Così la bella mogliettina ha ammazzato Rocco”, Leanza aprì gli occhi mentre lei ritornava con la bocca sul suo pene con l’intento di ingoiarlo per tutta la sua lunghezza. Con la voce rotta dall’eccitazione, provo' a ribattere:”Le notizie girano in fretta”, spingendole il sesso in bocca. Era quasi all’apice del piacere, quando Masha, con la cappella poggiata alle labbra proseguì a parlare : “Beh, Rocco veniva spesso qui, sai che era un anno che non beveva più? Scopava e si gonfiava la pancia con acqua tonica e coca cola”, ritornò poi a succhiargli il cazzo con ingordigia. Sentendo quelle parole lo sbirro quasi le strappo i capelli, tirandola su, gli occhi sgranati, fissò la russa interdetta per quella interruzione:”Sono stanco Masha, mi sa che non è serata”.
La ragazza si ricompose, osservando lo sbirro che si rialzava, rimettendosi il pene rigido nei pantaloni, si allontanò verso l’uscita poggiando venti euro sul bancone.
“Sei stato veloce stanotte”, la frase canzonatoria di Bea lo accompagno all’uscita del locale, mentre l’aria fredda finì di scuoterlo.
Il suo passo era deciso, la suola degli anfibi risuonava nel suo impatto con il selciato bagnato, mentre quasi correva verso il suo ufficio.

Non accese nemmeno la luce, aprì veloce il cassetto della scrivania, rovistò tra pistola, manette, evidenziatori e penne, finchè non trovò la busta che conteneva il telefono cellulare di Anna Palmisi. Si accese una sigaretta nel buio, cominciando a leggere la rubrica, le chiamate i messaggi. Nulla di particolare, poggiò il telefono sulla scrivania, finendo la sua sigaretta. La spense, tiro fuori la fiaschetta piena di vodka che conservava in un altro cassetto e bevve un lungo sorso. Riprese in mano il cellulare, guardò fra i messaggi salvati: ce n’erano diversi, uno da parte di certo Pietro Palmisi:”Scusami per oggi, per come mi sono comportato, quando si tiene ad una persona ci si comporta così”.
Forse era quello che cercava, ma chi cazzo era Pietro Palmisi.
Fuorì cominciò ad albeggiare, l’aurora faceva capolino dalle persiane.
Aveva fra le mani un morto alcolizzato che non beveva più, una moglie disperata che si era tolto un peso, l’amante di lei che l’aveva aiutata.
Poggiò nuovamente il telefono cellulare sul tavolo da lavoro, diventò di nuovo giudice oltre che sbirro, e poi era stanco, molto stanco.
Fanculo qualcuno lo avrebbe scoperto, lui doveva occuparsi di puttane e pappa, volevano quello no?


CAPITOLO II

Non percorse nemmeno metà del lungo corridoio buio che ritornò deciso sui suoi passi, imprecando con se stesso a bassa voce.
Entrò in ufficio, questa volta accendendo la luce e chiudendosi la porta alle spalle. Si guardò attorno come un ladro; il piccolo gatto dei Palmisi sonnecchiava sulla sedia di fronte la sua scrivania:”riposati piccolo, sei l'unico testimone oculare”. Aperto il cassetto, infilati un paio di guanti in lattice, con estrema cura, cominciò a poggiare sulla scrivania ciò che era intenzionato a portare con sé:”vediamo cosa abbiamo qua”. Conservò il telefono cellulare della signora Anna in una busta gialla, in un'altra trasparente mise il sacchetto della spesa ed il filo elettrico serviti per soffocare il marito della donna.
Accarezzò il gatto che lo guardava con interesse, emettendo un miagolio muto:”Si, lo so micio, mi sto infilando in un mare di guai, dormi tu e non far troppo casino qui dentro”. Diede un' occhiata in corridoio, dopo essersi accertato che non ci fosse nessuno, uscì di fretta portando nel suo zainetto militare a tracolla le prove del delitto.
In fretta raggiunse la sua vecchia e sgangherata Renault 4, sistemò sotto il sedile lo zaino e, mettendola in moto con non poca fatica, si diresse al “Pierrot”. Dentro il bar c’erano pochi avventori a quell’ora, il profumo delle brioche calde gli fece ricordare che erano parecchie ore che non mangiava, ma appena le guardò gli si chiuse le stomaco.
Masha era dentro con le altre entrenuse. Rideva e scherzava con loro e con un paio di operai che si accingevano a recarsi al turno del mattino. Guardò l’ora, erano da poco passate le cinque. Aspettò fuori dalla macchina che la donna lo notasse, accendendosi una sigaretta, scosso dal freddo che si insinuava, come una lama, sotto i suoi abiti. Finalmente la russa posò lo sguardo su d lui e gli sorrise. Se non fosse stato per gli abiti succinti ed il trucco vistoso, l’ avresti potuto scambiare per una studentessa: il modo di ridere era quello di una ragazza semplice, così come il suo sguardo luminoso, nonostante le ore di sonno perdute.
Salutò frettolosamente le colleghe e raggiunse a passo svelto Leanza:”Stamattina ho la scorta della polizia!”, gli posò un bacio leggero sulla guancia ruvida di barba:”mi accompagni a casa”. Lo sbirro aprì a fatica la portiera dell’auto, lei subito entrò sfuggendo al gelo dell’alba torinese.
Entrò anche lui nel piccolo abitacolo che sapeva di nicotina e plastica arrostita dal sole, poi mise in moto l’utilitaria francese. Il motore teneva loro compagnia lungo il percorso verso la casa della russa. Aprì il piccolo finestrino, quel tanto che bastava per far uscire il fumo della sigaretta, subito dopo dopo averla accesa la passò alla ragazza. Lei la accettò, inspirando e tossendo leggermente:”dovresti cambiare auto e, soprattutto marca di sigarette. Queste sono veleno!”. Leanza sorrise guardando l’alba che rischiarava lo scorrere lento della Dora. Riprese la sigaretta:”Rocco Palmisi aveva un fratello, lo sapevi?”. Scalò la marcia, cominciando a cercare un parcheggio, quando la donna si decise a parlare:” Mettila davanti al cancello c’è posto. Parli di Pietro? Certo che lo conosco, venivano insieme al night, è un puttaniere ma non è una cattiva persona. Il bastardo fra i due era Rocco”.
Spense contemporaneamente il motore dell’auto e la sigaretta:”E Pietro dove lo trovo? Ma prima ho bisogno di dormire un paio d’ore, se non c’è nessuno in casa mi fermerei”. Masha cercò le chiavi nella voluminosa borsa sportiva che contrastava con il resto del suo abbigliamento; era la borsa di una donna che lavorava, di una donna che doveva portarsi il necessario per cambiarsi all’occorrenza:”Pietro al mattino lo trovi a Porta Palazzo, non ti puoi sbagliare: è identico a Rocco, fa le tre carte. Dai saliamo a casa, sei uno straccio”.
Fecero le scale in silenzio, nel buio più totale Masha aprì la porta dell’appartamento. Antonio lo conosceva molto bene, non era la prima volta che vi trovava rifugio. Si levò il parka militare e lo gettò sul piccolo divano azzurro che divideva il soggiorno dalla cucina. Masha andò direttamente in camera da letto, l’unica stanza del minuscolo appartamento, dove cominciò a spogliarsi:”Conosci la strada, mi faccio una doccia e mi metto a letto, sono distrutta”. Antonio Leanza si levò gli anfibi e si lasciò andare sul divano:”Mi stendo qui, ho solo bisogno di un paio d’ore”. Trovò una posizione comoda e scivolò in un sonno profondo, cullato dal rumore dei movimenti leggeri della donna,in bagno ed in camera da letto.
La luce di un sole freddo e color mercurio che filtrava dalla finestra, lo costrinse ad aprire gli occhi, guardò l’orologio, erano da poco passate le dieci. Silenzioso si infilò gli scarponi in cuoio nero, andò in bagno e si lavò il viso con abbondante acqua gelata. Passando dalla camera da letto notò il profilo del corpo femminile, si soffermò ad osservarlo, indeciso se salutarla o meno prima di andar via. Si diresse in cucina e preparò la macchina del caffè, lasciandola sui fornelli e senza accenderla, poi le scrisse due parole su un foglio giallo:”Grazie, mi faccio vivo io”.
Non fu necessario recuperare la macchina; il mercato dove avrebbe cercato Pietro era a non più di dieci minuti a piedi. Il freddo pungente lo aiutò a risvegliarsi del tutto, così come l’odore ed i colori della frutta esposta sui banchi. Attraversò l’area riservata alla frutta e verdura, tra il vociare allegro dei venditori e la calca di persone, dirigendosi verso il Baloon. Tra facce di ogni colore, robivecchi e merci di ogni tipo, notò un capannello di persone attorno ad un piccolo tavolino. Impossibile sbagliarsi, era la copia esatta di suo fratello. Nonostante il freddo, indossava un giubbotto di pelle leggero su una camicia sbottonata, una vistosa collana d’oro gli pendeva sul petto, le sue mani scorrevano veloci sul piccolo tappeto verde, facendo saettare le carte, come fossero animate da vita propria. Lo sbirro si fermò un attimo, infilò un paio di guanti. Con le mani coperte, tirò fuori dallo zaino il sacchetto della spesa azzurro, lo aprì e ci mise dentro ripiegata la sacca militare, come la avesse appena acquistata. Si avvicinò al gruppo di giocatori e decise di fare almeno un paio di puntate. Sorridente Pietro Palmisi, imboniva i presenti con la propria voce, invogliandoli a puntare, permettendo anche l’illusione di qualche vincita, consapevole che alla fine le proprie tasche sarebbero rimaste piene. “Questa vince, questa perde, questa vince, questa perde…”. Leanza fece un paio di puntate da dieci mila lire, perse tutte le volte, questo però gli diede la possibilità di individuare i due compari di Pietro. In genere chi fa le “tre carte” ha sempre un paio di soci che, oltre a giocare essi stessi, hanno il compito di dissuadere eventuali vincitori dal voler riscuotere quanto giustamente guadagnato. Costoro fanno anche da palo, permettendo al giocatore di ripiegare in tutta fretta il tavolino e fuggire. Come previsto non fu difficile individuare i due: il primo era proprio sulla sua destra, il secondo appoggiato ad una transenna poco distante, osservava attentamente il via vai di persone. Leanza estrasse qualcosa dalla tasca interna del giubbotto, quando Pietro Palmisi posò definitivamente le tre carte sul tavolo, aspettando le puntate, appoggio il proprio tesserino di riconoscimento sulla carta vincente. Fu un fuggi fuggi generale, anche i due compari di Pietro, non potendo fare diversamente si dileguarono, lasciandolo solo. “Dobbiamo solo parlare un po’ Pietro, raccogli le tue cose e andiamo”. Sentendo pronunciare il proprio nome, con riluttanza e rassegnato, l’uomo afferrò velocemente le banconote presenti sul tavolo e le infilò in tasca insieme alle carte da gioco, ripiegò il tavolino e seguì l’ispettore.
Leanza indicò un bar caffè poco distante:”vieni andiamo là dentro”. Si incamminarono verso il bar; una volta dentro Leanza notò un tavolino appartato:”qui va bene, possiamo parlare tranquilli”. Richiamò l’attenzione del barista ed ordinò due caffè. Una volta seduto, squadrò Pietro:”Dammi un tuo documento e non fare cazzate, se avessi voluto arrestarti saremmo già in questura”. Pietro tirò fuori la carta di identità e la consegno all’ispettore. Lo sbirro si alzò e fece per levarsi il parka, restituì a Pietro il documento e gli chiese di tenergliela momentaneamente, dandogli in mano anche il sacchetto della spesa azzurro. L’uomo ingenuamente prese gli oggetti stringendoli frale mani sudaticce per il nervosismo, per poi restituire il tutto al poliziotto che, una volta che si fu svestito lentamente, si sedette.
Leanza, con fare teatrale, tirò fuori la propria borsa militare a tracolla, infilò con estrema curo al suo interno il sacchetto azzurro, infine si tolse i guanti che aveva sempre indossato, cominciando a leggere attentamente il contenuto della carta di identità.
Palmisi Pietro aveva compiuto da appena un mese i suoi quarant’anni, era partito dalla Calabria quando ne aveva appena diciassette, era una mattina di settembre ed era ancora estate. Non lo accompagnò nessuno alla stazione di Villa San Giovanni. Quel giorno, dimenticandosi di essere un vero uomo, in piedi nel corridoio del vagone e con la faccia fuori dal finestrino, pianse di nascosto mentre si allontanava dalla sua terra. Non raggiunse immediatamente il fratello a Torino, con il miraggio di trovare un lavoro in Fiat, lui amava il mare e preferì provare a cercare qualcosa a Genova.
La città non era troppo diversa da Reggio Calabria, a parte il crogiuolo di vicoli e vicoletti che si affacciavano al porto. Pietro, così come tanti altri suoi corregionali, trovò una pensione in via della Maddalena. Sperava di trovare una sistemazione in porto, magari un imbarco, per potersi stabilire in quella città. Le speranze troppo spesso non combaciano con la vera natura di ciascuno di noi, così il giovane calabrese cominciò a farsi trasportare dalle varie distrazioni che offriva quel luogo e, soprattutto, dalle cattive compagnie.
Nonostante la maggior parte dei traffici, in quegli anni, si svolgesse in via di Prè, lui in quanto calabrese preferiva il giro della zona della Maddalena, ove i calabresi la facevano da padroni. Ben presto imparò l’arte del gioco d’azzardo e del borseggio , i facili guadagni, non lo invogliarono certo a cercarsi un lavoro regolare.
Riuscì a star lontano dall’eroina, che in quegli anni scorreva a fiumi tra gli angusti vicoli cittadini, ma non riuscì ad evitare il fascino delle puttane. In particolare di una puttana. Il basso che usava Anabel era in una piccola viuzza parallela alla pensione dove soggiornava Pietro. A furia di passarci davanti, di parlare e scherzare con lei mentre aspettava i clienti, finì che la invitò a mangiare una pizza ed a farle visitate la sua piccola cameretta. Era ovvio che entrambi sapevano come sarebbe finita, non fu trattato come un cliente ma come un amante, le loro labbra si assaggiarono prima dei loro corpi. Anabel cullava il suo giovane uomo tra le sue tette abbondanti, gli raccontava dell’Argentina che le aveva dato i natali, gli descriva i posti selvaggi, gli odori e le opportunità. Fu in una di quelle notti che a Pietro venne la folle idea di partire per quelle terre lontane insieme a lei. Di fare quella rapina e portarla via dal suo basso, dai clienti, da Genova, da tutto.
Che poi il colpo, in se e per se era un lavoretto da ragazzi, la dritta che aveva era buona, in Posta di soldi ce ne erano e tanti; soprattutto sembrava facile portarli via. Quando uscì correndo dall’ufficio postale, toltosi il passamontagna e rimessa la pistola giocattolo nella tasca del giubbotto, pensò che ormai era fatta. Il sospetto che una bicicletta non è poi un mezzo così veloce per darsi alla fuga non lo sfiorò minimamente. Maledì quell’idea quando si trovò col culo per terra, circondato dagli sbirri, comprendendo che a quel punto era fottuto.
Passò due anni nel carcere di Marassi. Anabel non si fece né vedere né sentire, dandogli la certezza di quanto era stato stupido. Un bel posto il carcere, dove riuscì a perfezionare la tecnica delle “tre carte e “l’arte del borseggio”, ma dove soprattutto cominciò a riflettere sul fatto che, una volta uscito, sarebbe stato lui a sfruttare le donne.
Quando fu libero ormai era un uomo. Decise di raggiungere il fratello a Torino, non per trovarsi un posto in Fiat come tutti, ma per mettere bene in pratica tutto ciò che aveva così bene imparato.
Così, avvolto dal freddo e dalla nebbia piemontese, ospite del fratello maggiore, ricominciò ad abbindolare i passanti col gioco d’azzardo, a borseggiare i viaggiatori sugli autobus nell’ora di punta e, soprattutto, cominciò a frequentare alcuni night club. Conobbe alcune ragazze che furono “felici” di passare “spontaneamente” sotto la sua protezione.
L’amore nato con sua cognata non era stata una cosa che aveva potuto prevedere, era maturato in maniera sottile, quasi infida. Si cominciarono a toccare con gli occhi, poi passarono a pericolosi sfioramenti ogni volta che lei lo serviva a tavola per finire, un primo pomeriggio di aprile, a scopare furiosamente sul tavolo della cucina. La loro relazione avrebbe potuto rimanere segreta per sempre, se non fosse che Anna un giorno, dopo l'amore, gli rivelò come il marito più volte le avesse proposto il marciapiede, così per arrotondare e contibuire al pagamento delle rate della macchina.
Ancora una volta Pietro sognò le pampas argentine, di poter fuggire laggiù con la sua donna, ancora una volta il sogno di una fuga gli stava rovinando la vita.
L'ispettore Leanza bevve tranquillo e sorridente il suo espresso, osservando il volto pallido e spaventato dell'uomo che aveva davanti. Con un semplice gesto del volto indicò la tazzina :“Buono il caffè, ci voleva. Bevilo finchè è caldo”. Sollevando la tazzina e guardandoci dentro, con fare riflessivo, Antonio comincio a riflettere ad alta voce:”Caro Pietro, non immagini i progressi della scienza. Basta un po’ di saliva, un po' di sudore, che ne so lasciato su una tazzina, su un lenzuolo, su un sacchetto di plastica. Tracce a non finire e ti ritrovi fottuto”.
Pietro nervoso si accese una sigaretta, guardando il poliziotto, poi si decise a bere il caffè:”Anna negherà tutto, io ci abitavo in quella casa, non ci trovo nulla di male se ci sono le mie impronte o il mio DNA” .
Leanza sorrise divertito:”Il mio povero Pietro. Tranquillo!! Le tue telefonatine ed i tuoi messaggini con la bella Anna, sono al sicuro. Se ti avessi voluto portare dentro non staremmo qui a discuterne. Rocco era un gran bastardo ed ha fatto la fine che meritava, il resto al momento non mi interessa” Lo sbirro si fece improvvisamente serio, guardò dritto negli occhi il giocatore d'azzardo:”Ed ora veniamo a noi. Voglio qualche dritta buona. Devo lavorare e so che lo puoi fare. Tu aiuti me ed io aiuterò te. Alla fine magari vediamo cosa riusciamo a fare anche per Anna. Chi lo sa.”
L’ispettore si alzò, lasciò un po’ di danaro sul tavolino ed un bigliettino col suo numero di telefono:”Paga tu e tieni il resto, quando avrai qualcosa di buono chiamami”. Infilò il parca e si rimise lo zainetto a tracolla, fece per andarsene:”Pietro, non mi fare aspettare molto, non ho molta pazienza in questo genere di cose”.
Pietro Palmisi restò seduto, osservando il poliziotto che si allontanava, si rese conto di essere fottuto, un’altra volta nella sua vita fottuto da una donna.


CAPITOLO III

Pietro quel pomeriggio non uscì di casa, aveva bisogno di pensare. Sdraiato sul divano, fumava una sigaretta dietro l’altra cercando una scappatoia, un modo per uscire pulito e vivo da quella situazione. Si sorprese del fatto che, in fondo, non gli interessava correre il rischio di finire dentro un’altra volta. Semplicemente era troppo attaccato alla vita per correre il rischio di essere trovato, una mattina, nella sua squallida stanzetta, dalla donna delle pulizie, morto suicidato.
Guardò l’orologio, non aveva cenato ed erano da poco passate e 23,00, quando si decise a comporre il numero di Leanza. Il suono del telefono libero fu interrotto dalla voce di quest’ultimo:”Cominciavo a perdere la pazienza Pietro”. Trascorse una manciata di secondi, alla fine, con voce insicura, il calabrese si decise a parlare:”Le offro un caffè al Pierrot ispettore, stavolta pago io, facciamo tra un’oretta, tanto chiude tardi. Ho quel Rolex che le interessava”.
Leanza accetto senza alcuna esitazione:”Ci vediamo lì, vedi di non farmi aspettare troppo”.
In tutta fretta lo sbirro infilò il piccolo registratore nella tasca interna del parka, la sua mano andò velocemente alla beretta in fondina, scese di corsa le scale che dagli uffici della Squadra Mobile portavano nell’atrio, raggiunse infine la Renault 4 nel parcheggio riservato.
Non trovò traffico ma procedeva a rilento per la fitta nebbiolina di quella notte che copriva, come un lenzuolo color perla, le strade sdrucciolevoli. Non amava andare a quel tipo di appuntamenti senza aver per lo meno verificato che non ci fossero movimenti strani. Sistemò l’auto a circa cinquanta metri dal bar, in modo da averne a vista l’ingresso. Dopo qualche minuto Pietro Palmisi sopraggiunse a piedi, era solo. Aspettò altri cinque minuti in auto, quando fu certo che non ci fossero movimenti strani, si decise ad entrare anche lui nel bar. Il Pierrot era deserto, Pietro lo attendeva al bancone. Il barista era di spalle a trafficare vicino la macchina del caffè, così Leanza, con un cenno del mento, invitò l’uomo a seguirlo fuori:”Il caffè lo prendiamo dopo, adesso andiamo fuori di qui”. Camminarono diretti verso il lungo Dora, uno al fianco dell’altro, come due amici intenti a passeggiare. Nessuna parola, solo il freddo che si faceva denso in piccole nuvole bianche che uscivano dalle labbra dischiuse. Sempre Leanza indicò una panchina, più in giù vi era il fiume silenzioso, unico testimone di quello strano incontro. Pietro Palmisi si sedette, chiudendosi il bavero del cappotto, come si volesse proteggere per quello che stava per raccontare. Antonio tirò fuori il pacchetto di sigarette e ne offrì una all’uomo, accendendone una per sè. Inspirò veloce la prima boccata:”Mi auguro per te che non mi stia facendo perdere tempo, è un periodaccio e di tempo ne ho poco”.
La mano di Pietro tremava leggermente, mentre si portava alle labbra la sigaretta. Lo sguardo fisso sul lento scorrere dell’acqua, cercava di scegliere le parole giuste per la sua storia. Sarebbe stato tutt’altro che facile, quello sbirro non aveva l’aria di uno che molla facilmente, al contrario sembrava una vera e propria calamita per i guai.
“C’è un posto vicino Torino, ci faccio lavorare le mie donne. E’ un bel posto per ricconi. Non lo pago io, me lo hanno procurato e le ragazze ci lavorano e basta, o meglio conoscono bella gente, a volte tirano su qualche marchetta nelle camere, per lo più è un posto di incontro e per divertirsi, per passare la serata, per giocare. Poi le cose avvengono fuori di lì”.
Antonio gettò il mozzicone lontano:”Mi stai pigliando per il culo, vero?!”, la voce era alterata, prese Pietro per il bavero del cappotto e quasi lo sollevò di peso dalla panchina:”Pensi che voglia perdere tempo con quattro puttane?”. Pietro afferrò i polsi dello sbirro, impaurito per quella reazione. Un attimo prima di essere scaraventato nel fango riuscì a proseguire:”C’è dell’altro, c’è molto di più, ma qui ci ammazzano tutti e due”.
Incoscientemente, quasi rassicurato da quelle ultime parole, lo mollò sulla panchina, come un sacco di patate, lasciando che si ricomponesse:”Questo fallo decidere a me, continua, prima che mi incazzi sul serio”.
Il Palmisi si accese una seconda sigaretta:”Le persone che pagano la casa, io non so esattamente chi siano, inoltre mi hanno obbligato a far lavorare lì dentro una donna che non conosco. Be è una faccenda strana, c’è qualcosa sotto. Lei fa finta di parlare anche con gli altri, ma in particolare ha legato con uno, un pezzo grosso della Olivetti, appena arriva sta sempre con lui”.
Antonio cominciò a valutare la questione, fece qualche passo verso la fontanella a forma di toro verde. Bevve a lungo, poi si incammino verso l’argine del fiume, con la punta degli anfibi, cominciò a giocherellare con una sasso bianco, come se dalla pietra potesse ottenere qualche consiglio. Poteva sentire l’acqua scorrere nella notte, non la vedeva bene giù in fondo, avvolta dalla foschia, ma se si sforzava appena ne poteva ascoltare l’antico rumore, come una sorta di accompagnamento in grado di dare il giusto ritmo al suo pensiero. Si voltò verso Pietro, ritornò alla panchina:”Parlami di questa gente che paga la casa, della donna e soprattutto del tizio della Olivetti, chi è e cosa sai di lui”.
Pietro aveva tre donne che lavoravano con lui, ormai da un paio d’anni. Le prime due: Morena e Silvia, le aveva reclutate in un night in cui aveva una piccola partecipazione societaria in nero. Troppo belle e troppo intelligenti per quel lavoro, con entrambe aveva avuto una sorta di relazione, entrambe avevano presto capito che i soldi veri li avrebbero visti entrando nel giro grosso, nel giro delle feste private; così di buon grado avevano accettato i consigli dell’intraprendente principale. La terza: Katia, una rumena dai capelli corvini, l’aveva in pratica vinta al tavolo verde. La notte di S. Silvestro dell’anno precedente, aveva ripulito il suo magnaccia il quale, piuttosto che pagare la vincita, aveva preferito disfarsi della sua puttana. La giovane e bella rumena era passata dai marciapiedi alle ville di lusso, per Pietro avrebbe venduto l’anima al diavolo.
Il calabrese aveva affittato per loro una bella casa alla crocetta, dove ricevevano clienti facoltosi e dove venivano contattate per essere invitate a varie feste particolari. Tutta clientela di un certo tipo, lo stesso Pietro, ormai, era conosciuto in certi ambienti per la sua discrezione e professionalità. Questa attività gli sarebbe bastata per vivere, ma lui aveva una sorta di attrazione per le “tre carte” e tutto il resto, così non aveva ma abbandonato la piazza.
Forse fu proprio a causa di tanto declamata discrezione che, quella mattina di due mesi prima, ricevette la strana telefonata e la scelta ricadde su di lui.
L’uomo che lo chiamò, presentatosi frettolosamente e con tono quasi perentorio come l’avvocato Bianchi, dopo convenevoli superficiali, gli disse che aveva un affare interessante da proporgli, ma che si sarebbero dovuti vedere di persona. L'avvocato fu molto convincente, soprattutto tranquillizzo il suo interlocutore sulla propria affidabilità, dicendo che aveva già lavorato con amici comuni, menzionando in particolare Pino Macrì, uno di quei personaggi a cui in alcuni ambienti non è consigliabile dire di no. Persuaso che forse si trattava di una buona occasione di lavoro, Pietro accettò di vedere lo sconosciuto il giorno dopo, in una trattoria di Corso Casale.
L'avvocato, tra una portata e l'altra gli aveva proposto e di prendere “in gestione” una villa isolata sulla collina di Moncalieri. Disse che un suo cliente voleva alleggerire un pollo, ma per farlo le cose dovevano essere fatte per benino, aveva bisogno di una copertura adatta e Pietro faceva al caso suo. I guadagni delle puttane sarebbe andati tutti a lui, il cliente dell'avvocato avrebbe coperto tutte le spese. Unica condizione non far parola con nessuno dell'intera faccenda, far lavorare in villa una puttana che il suo cliente aveva già scelto.
Mara non aveva l'aria della escort, Pietro le sentiva a pelle certe cose, una così quel lavoro non lo aveva mai fatto. Quando la vide la prima volta erano passate circa due settimane dal pranzo con l'avvocato. Si era presentata nelle prime ore del pomeriggio in villa. Pietro l'aveva fatta accomodare in una piccola stanza che aveva adattato a studio. In realtà sembrava più una piccola portineria, anzi uno sgabuzzino adibito alla video sorveglianza, erano infatti presenti alcuni monitori che trasmettevano tutto ciò che accadeva nelle varie stanze della villa. Mara non sembrava affatto sorpresa di questo aspetto, trascurò del tutto la presenza dei monitoro e strinse decisa la mano di Pietro presentandosi a sua volta. Portava i capelli color rame raccolti in una coda di cavallo che le scendeva oltre le spalle. La semplice pettinatura esaltava i lineamenti forti del suo viso gli occhi color nocciola, della forma che solo le giovani cerbiatte possono avere. I jeans scuri ed aderenti le disegnavano le gambe slanciate ed erano infilati in un paio di stivali da cavallerizza dello stesso colore. Pietro pensò immediatamente che era bella, ma che aveva le tette piccole, non tutti apprezzano le puttane con le tette piccole, ma non era affar suo in questo caso. Il colloquio fu breve, il “protettore” si limitò ad illustrare gli orari della casa, fece visitare le stanze ed indicò alla ragazza quale poteva utilizzare e dove poteva mettere le sue cose. Proprio in questa camera da letto provò ad allungare una mano poggiandola con naturalezza sulle natiche di Mara, lei lo fulmino con lo sguardo e lo dissuase con poche parole fredde:”Non sono una tua puttana”.
Proprio il particolare fascino di Mara lo aveva spinto ad osservarla attentamente, sera dopo sera. Era più che convinto che quella donna non era come le altra, non aveva mai fatto il mestiere. Non ci mise molto a capire chi era il “pollo” da spennare. Le attenzioni di Mara si erano fin da subito concentrate sul giovane ingegner Ennio Tringale. Non si capiva il perchè un giovane così bello, così potente, ma soprattutto così ricco, avesse la necessita di frequentare un posto come quello, fatto sta che fin dai primi giorni dell'inaugurazione il giovane rampollo di casa Tringale era fra i più assidui clienti della villa. Quando entrò la prima vola che entrò nell'ampio salone della lussuosa casa, le ragazze fecero a gara per accaparrarsi la preda giovane e ricca. L'attenzione di lui ricadde però istintivamente su Mara, come se lei lo avesse chiamato a se con la sola forza del pensiero. Da quella sera Ennio Tringale pur partecipando alle provocazioni giocose delle altre ragazze, saliva in camera solo con la sua preferita.
Era una sorta di rituale tra lui e Mara che non abbandonò piu, arricchendolo ogni volta di fantasie nuove che lo legavano a quella donna e che rendevano il loro rapporto speciale.
Quella prima sera fu lui che, dopo aver bevuto la seconda coppetta di Moët & Chandon, le chiese di andare in camera. Non appena dentro la stanza, Mara gli mollò un sonoro schiaffone sul viso:”Porco, guardi le altre e poi vuoi scopare con me?”, come se fossero una coppia consolidata e si frequentassero da sempre.
Fu quella provocazione a fargli scattare qualcosa dentro, una sensazione nuova che lo sorprese. Sempre abituato ad una sorta di dolcezza nell'approccio sessuale, prese consapevolezza che dentro di lui era ben nascosta una violenza cieca, primitiva. Voleva quella donna e voleva provocarle piacere e dolore insieme. La voleva possedere in tutto e per tutto, voleva trasformarla nella sua cagna, nella sua troia. Mara, vedendo che lui non aveva reagito al primo schiaffone, ne fece seguire un altro. Ennio le bloccò il polso tirandola a se ed addossandola contro il muro, impedendole ogni movimento. Con una mano le tappò la bocca, non prima che lei esclamasse:”Sei un fottuto bastardo!”, con l'altra mano da tergo le strappò il sottile perizoma, colmandosi le dita con il sesso già bagnato di lei:”Ti trasformerò nella mia troia”.
Con il viso contro il muro, bloccata in ogni movimento, la penetrò brutalmente. Le sollevò l'abitino rosso sulle natiche, ormai rimaste nude, tirò fuori il proprio membro eccitato e la ebbe. Velocemente, ansimandole nelle orecchie, sentì i denti di Mara che gli mordevano forte le dita, in quel momento si svuotò dentro di lei, avvertendo il proprio seme che le colava fra le cosce. Da quella volta, la volle avere sempre così, la voleva schiava e sgualdrina, remissiva ad ogni suo desiderio. Adorava osservare i segni che le lasciava sulla pelle chiara, amava bendarla e legarla, godendo del suo corpo a piacimento, sentendola ansimare sotto di lui.
Ennio Tringale credeva di essere padrone di quel gioco, non rendendosi conto che ne sarebbe stato una vittima. Oltre ad essere un dirigente Olivetti, il dott. Tringale era sceso in politica da circa un anno, divenendo ben presto segretario regionale del proprio partito. Una vera e propria promessa del mondi imprenditoriale, ma anche della nuova politica, indebolita dopo la fine della “prima repubblica”.
All'inizio questi argomenti restarono taboo per Mara, lentamente lui imparò a fidarsi di lei. Dopo il sesso, sdraiato esausto sul letto, si sfogava con lei, raccontava le sue vicissitudini, scherzava sugli altri colleghi, indugiando su pettegolezzi e strategie politiche ed imprenditoriali.
Quando Antonio Leanza ebbe ascoltato tutto ciò, decise che forse era arrivato il momento di conoscere da vicino la signorina Mara.


CAPITOLO IV

“E bravo Pietro”. Antonio Leanza aveva disegnato sul viso un sorriso forzatamente allegro, quasi cattivo. Con teatrale gentilezza offrì una sigaretta al protettore calabrese. Pietro, la accettò ancora leggermente tremante, la accese e si prese la testa fra le mani, quasi si fosse già pentito di quello che aveva appena raccontato.
“Non ti facevo così intraprendente, ora farai qualche altra cosetta per me”. Pietro alzò lo sguardo verso lo sbirro, visibilmente preoccupato:”Ispettore qui ci ammazzano tutti e due”.
Leanza continuò a ridere allegro, come se stessero stappando lo spumante la notte di S. Silvestro:”Qui nessuno ammazza nessuno. Ora farai due cose per me caro signor Pietro: prima di tutto voglio vedere chi è questa Mara, poi ho una donna da presentarti, anche lei per qualche tempo lavorerà in quella villa. Troverai tu il modo per farlo e per giustificare la sua presenza, vedi di inventarti qualcosa di plausibile”. L’ispettore controllò l’orologio:”Si è fatto tardi, domani sera ti verrò dietro in villa e mi farai vedere chi è questa Mara, nei prossimi giorni ti presenterò la tua nuova puttana. E’ bella, non ti farò sfigurare”.
Senza consentire alcuna replica, gli voltò le spalle, cominciò a percorrere lentamente la strada che aveva fatto diretto al suo Renault 4. Un velo di brina, che ben presto si sarebbe trasformata in ghiaccio, ricopriva il parabrezza della macchina. Una volta dentro, accese l’aria calda ed azionò i tergicristalli, trasformando il piccolo abitacolo in un forno, creando un microclima tropicale. Fu costretto ad aprire una piccola porzione di finestrino, sia per il caldo che per fumare. Amava guidare nella notte torinese, lontano dal caos diurno, riusciva a distinguere la varia umanità, si raccontava storie su ciascun personaggio che incrociava con lo sguardo, immaginando le sue vicende, le sue disavventure.
Pur potendo ritornare a dormire nella sua piccola mansarda sui tetti di piazza Vittorio, decise che avrebbe trascorso la notte da Masha, aveva bisogno di parlarle la mattina successiva.
Prima di ritornare all’appartamento della russa, passando per Porta Palazzo, adocchiò un piccolo furgone ove vendevano panini, ci si fermò proprio davanti deciso a mangiare qualcosa.
Dall’interno del furgone proveniva il brano di qualche sconosciutissimo neo melodico napoletano; campano era anche l’uomo grassoccio che farciva panini ripieni di ogni genere alimentare, a patto che non si trattasse di roba sana. Tre puttane nigeriane, tutte con indosso mini abiti dai colori sgargianti, scherzavano fra loro ammiccando verso Leanza, cercando di rimediare una marchetta. Lo sbirro scelse una piadina, facendosela farcire con una salsiccia dall’aspetto per nulla invitante e con verdure grigliate che poco prima annegavano nell’olio, in attesa di essere salvate. Il gusto non era malaccio, inoltre si confondeva bene con la lattina di birra a buon mercato che si stava scolando con ingordigia.
Quando finì, osservo con malcelato interesse, la macchia di unto sulla manica del parka. Forse avrebbe dovuto utilizzare i tovaglioli di carta, come gli raccomandava la mamma da piccolo.
Accesa la sigaretta, salutò l’allegro e grassoccio rivenditore. Sorrise alle puttane che probabilmente lo stavano prendendo per il culo, in quella loro lingua fatta di suoni antichi e gutturali. Salì in macchina e si diresse verso l’appartamentino di Masha.
Sapeva bene che lei teneva le chiavi di casa nascoste in un piccolo vaso di fiori sul pianerottolo. In quella casa non c’era nulla che valesse la pena di essere rubato, inoltre non era la prima volte che anche lui se ne serviva per dormire.
Una volta dentro accese la luce, lei non c’era, a quell’ora era al “Pink”. Corse in bagno, gli scappava da pisciare. Si svuotò la vescica stando attento a non farla fuori. La russa aveva solo due regole per lui: non sporcare il sedile e non fumare in casa. La seconda gli dava più fastidio della prima. Aprì la piccola finestrella sopra la vasca da bagno, si accese la sigaretta e fumò con gusto, stando attento a far uscire il fumo all’esterno, come quando sedicenne fumava in camera sua.
Tirò fuori dalla sacca militare lo spazzolino da denti ed usò il dentifricio della padrona di casa, poi si diresse sul letto a due piazze di lei.
Le lenzuola erano fresche e pulite, i suoi abiti un po’ meno. Lasciò cadere tutto disordinatamente per terra e si infilò sotto le coperte. Nel buio pensò a quello che gli era accaduto negli ultimi due giorni, cominciò ad immaginare come chiedere quel piccolo favore a Masha, poi cadde in un sonno profondo.
Sentì qualcosa di umido lambirgli il cazzo, non si accorse immediatamente di che si trattava. Si rendeva conto di essere eccitato ed immagini sfocate di esseri femminili scorrevano nel suo dormiveglia. Si ascoltò ansimare e toccò qualcosa di setoso con le mani. Quando si rese contò che si trattava dei capelli di Masha, un calore impertinente gli stava risalendo dai testicoli verso il basso ventre. Deglutendo e spingendo con rapidi colpi di reni, in un amplesso immaginario, prese consapevolezza che la donna russa aveva il suo membro completamente fra le labbra. “Bentornata…”, Masha replicò con una piccola ed impercettibile risata, continuando in quello che stava facendo, finche i gemiti di lui le diedero il segnale che a breve avrebbe avuto la bocca piena del suo seme.
Venne gemendo fra le labbra di lei, rendendosi conto che la donna stava trangugiando buona parte della sua sborra e che il resto le stava finendo sul viso da ragazzina.”Be l’affitto devi in qualche modo pagarlo signor ispettore. Vado un attimo in bagno e poi dormiamo”.
Ricaddero entrambi in un sonno tranquillo, ognuno nella sua parte di letto.
Il mattino dopo Leanza le preparò il caffè, stette un attimo ad osservarla, finchè la ragazza non aprì gli occhi.
“Ho bisogno di un favore Masha, per qualche sera non andrai al night, parlerò io con Bea”, la russa bevve avidamente il caffè, guardando lo sbirro con aria interrogativa.”Ho bisogno che passi qualche serata in una villa, ci lavorano le puttane di Pietro Palmisi. Non devi fare nulla di strano né sei obbligata ad andare con i clienti, semplicemente devi tenere gli occhi e le orecchie aperte”.
Leanza gli raccontò di questa donna chiamata Mara e che voleva sapere tutto di lei, cosa dicevano le altre ragazze, cosa si diceva dei clienti, una cosa facile facile. Comunque era sempre meglio del night e sarebbe stata pagata il doppio.
Masha ci pensò un attimo:”Non riesco mai a dirti di no, cazzo!”, l’ispettore le passò un dito fra i capelli, sorridendole:”Devo andare ora, ti farò sapere io”. Le posò rapidamente un bacio sulla fronte, si era già rivestito ed uscì.
“Ho i soldi per il tuo Rolex Pietro, ci vediamo in piazza Vittorio…diciamo alle 18,00 stasera”. Al calabrese non restò che accettare l’appuntamento, così Leanza trascorse il resto della giornata nel suo ufficio: leggendo pratiche, rapporti e rispondendo al telefono, prendendosi la libertà di mandare a fanculo più di un collega, aspettando con che arrivasse l’ora dell’appuntamento.
Pietrò arrivò con il viso preoccupato, nel suo modo di fare traspariva ansia ed inquietudine:”Andrà tutto bene Pietro, ora io e te andiamo fuori dalla villa, non dovrai fare altro che indicarmi questa Mara non appena arriva, poi andrai a fare il tuo lavoro come tutti i giorni. Non fare casini tu ed io non ne farò”. Il calabrese annuì silenzioso.
Con due macchine diverse si avviarono verso corso Casale. Quando Leanza notò che Pietro stava per rallentare gli fece un segnale con i fari, inducendolo a parcheggiare. Cinquanta metri davanti a loro c’era un cancello in ferro battuto, oltrepassato il quale, un piccolo viale conduceva ad una villa della fine del ‘ 700.
Leanza gli telefonò prima che scendesse dalla macchina:”Vieni da me, vedi di non farti vedere”.
In meno di un minuto entrambi erano nella piccolo Renault 4, parcheggiata in mezzo ad altre auto, con bene in vista l’ingresso della ricca abitazione adibita a bordello di lusso.
“Appena vedi arrivare Mara me la indichi, poi ti riprendi la tua macchina e vai a lavorare come sempre. Per l’altra ragazza ti dirò io quando e se sarà il caso”. Leanza parlava, continuando ad osservare con attenzione il cancello. Pietro era bianco in volto, visibilmente spaventato “Qui succede un casino ispetto’ ”. Lo sbirro gli passò il pacchetto di sigarette:”Senti non mi fare incazzare stai calmo ed andrà tutto bene”.
Dopo quaranta minuti di attesa, un Wolksvagen Golf grigio metallizzato superò il Renault 4. Dentro c’era una donna dai capelli ramati. Anche ad una semplice e veloce occhiata, non poteva sfuggire la sua bellezza particolare.
L’auto oltrepassò il cancello e parcheggiò proprio davanti la villa, accanto ad altri due veicoli di piccola cilindrata. La donna che ne uscì corrispondeva alla descrizione che aveva fatto di lui Pietro Palmisi. Indossava un poncho di lana a fantasia che le lasciava scoperto il culo, inguainato in un paio di jeans scuri, a loro volta infilati negli stivali da cavallerizza.
“E’ lei?” Pietro annuì senza proferire parola. “Va bene, adesso aspetta dieci minuti, prendi la tua macchina e vai a fare il tuo lavoro del cazzo. Pietro…se ti scappa qualcosa hai la mia parola che te la faccio cagare. Fosse l’ultima cosa che riesco a fare nella mia vita di merda”.
Il calabrese, mesto, uscì dall’auto, entrò nella sua ed eseguì le istruzioni che aveva ricevuto.
Leanza si preparò ad una lunga attesa, aspettò che una coperta buia coprisse i boschi circostanti ed il vialetto. Fortunatamente le uniche luci presenti provenivano dall’interno della villa.
Quando fu certo di poter agire indisturbato, ispezionò accuratamente l’area che circondava l’abitazione del ‘700. Il muraglione intorno alla villa non era altissimo, inoltre in più punti, anche all’esterno, crescevano piante che avevano preso possesso dei mattoni antichi.
Nel silenzio delle tenebre non fu per lui difficile scegliere la pianta adatta, facendo presa sulle radici e sul legno, riuscì a scavalcare il muro: era dentro.
Con passi lenti e decisi si avvicinò all’auto di Mara, si sdraiò e riuscì a posizionare il localizzatore satellitare proprio sotto il veicolo. Allo stesso modo trovò la maniera di uscire, arrampicandosi sul muro.
Raggiunse in fretta il Renault 4, ora non gli restava che andar via ed aspettare.
Mise in moto la sua auto e ritornò verso casa, aveva bisogno di una doccia:”Ed ora vediamo chi cazzo sei signorina Mara”.

CAPITOLO V

Ormai era tardi, per quella notte evitò di andare a dormire a casa di Masha, passò davanti alle Cantine Risso e pensò anche di fermarsi per un boccone, ma stavano per chiudere ed aveva voglia tornare a casa sua, ormai erano due giorni che non ci andava ed era arrivato il momento di trovare un po’ di tranquillità nella sua tana.
Fortunatamente trovò posto nei pressi di pia...zza Vittorio. I portici erano deserti ed in lontananza la Gran Madre vegliava sui sonni dei torinesi. Quando aveva scelto quel piccolo monolocale, all’ultimo piano di piazza Vittorio, la vista su quel tempio cristiano era stata determinante, gli evocava frotte di spetti che si raccoglievano la notte per salire la lunga scalinata che portava alla chiesa, per poi dedicarsi ad oscuri riti folleggiando nella sua navata centrale.
Trovò il piccolo portoncino verde aperto, l’ascensore in stile liberty, di quelli che affascinano per avere tutti gli ingranaggi a vista, con una piccola panchina al suo interno, si trovava al piano terra. Spinse il piccolo bottoncino nero che indicava il quinti piano, scese per poi risalire l’angusta scala che gli permetteva di accedere alla sua mansarda. La casa sapeva di chiuso, accese insieme sia la luce del piccolo soggiorno che della cucina. Sapeva che all’interno del frigo avrebbe trovato la desolazione più totale, gettò il parka con noncuranza sul divano logoro, per poi affrontare il deserto dei tartari. Sorrise per un secondo, pensando che di birra ce ne era in abbondanza, una confezione da sei dominava paesaggio gelido, nello scaffale più in basso, un pezzo di formaggio di chissà quale tipo era ormai mummificato, assumendo una colorazione verde muffa.
Prese un piatto e lo riempì con due Simmenthal , rifiutandosi di controllare la data di scadenza. Anche i crackers sapevano di vecchio, ma accompagnati alla Simmenthal non si sentiva molto. Cominciò a bere la prima birra, ne aveva in programma due prima di andare a letto. Aprì la finestra sul soffitto spiovente per far uscire il fumo, sapeva che ne avrebbe accese almeno altre tre prima di sdraiarsi, una sorta di rito consolidato negli anni. Osservò la custodia del pc portatile sul divano, la curiosità di controllare il percorso di Mara era molta, rimandò comunque alla mattina successiva. Lo avrebbe fatto con calma ed a mente lucida. Prima di decidersi ad andare a letto chiamò per l’ultima volta Pietro, rispose al terzo squillo:”Sono io, domani pomeriggio o al più tardi dopo domani ti presento la mia amica. Non è lì per fare marchette e cerca di comportarti bene e non fare lo stronzo. Inventati tu una scusa con le altre”.
Ritrovare il suo letto fu piacevole, lo spinse in un sonno senza sogni che durò tutta la notte, fino a tarda mattinata. Quando aprì gli occhi fece fatica a capire dove si trovava, guardò l’orologio sul comodino: erano da poco passate le dieci.
Aveva lo stomaco vuoto, con un po’ di tristezza pensò al suo frigorifero ed alla dispensa, avrebbe fatto colazione fuori.
La prima telefonata la fece in ufficio:”vengo più tardi, sono fuori per un accertamento urgente”. La seconda, più difficile, la fece a Masha:”Mi sono appena svegliata ispettore, non è l’ora di rompere!”. Come al solito la voce squillante della ragazza lo fece sorridere. Si accese la prima sigaretta della giornata, tossì incurante delle raccomandazioni della donna a fumare di meno:”Se sei libera oggi pomeriggio, sul tardi, andiamo da Pietro, secondo me quando ti vede gli viene un colpo. Masha non voglio che tu faccia nulla di più di quello che ti chiedo…”. Dopo il solito scambio di battute, che lo fecero ridere e tossire ancora di più, si diedero appuntamento alle cinque in piazza Vittorio.
Aveva rimandato, ma era arrivato il momento di controllare il percorso di Mara. Seduto sul divano, attese con ansia che il pc si riavviasse ed aprì il software che gestiva il navigatore satellitare.
Caricò il tragitto che la sconosciuta aveva fatto la sera e la notte precedente. Ci volle meno di un minuto ed una serie di vie cittadine cominciarono ad illuminarsi di rosso scuro.
“Bene bene”, Antonio Leanza si alzò col computer portatile in mano, andandosi a sedere sul tavolo della cucina. Si accese una sigaretta e cominciò a studiare le strade che aveva sotto gli occhi.
“Te la passi bene Mara, ammesso che il tuo nome sia questo”. L’autovettura della donna, una volta partita dalla villa gestita da Pietro, si era diretta verso il quartiere della Crocetta, il più bello di Torino, si trovava ancora fermo lì, se si fosse sbrigato forse avrebbe anche fatto in tempo ad agganciarla.
Chiuse il computer lasciandolo acceso ed infilandolo nella borsa e poi nella sua sacca, più in fretta che riuscì si infilò alla rinfusa un paio di pantaloni ed una maglia. Non si guardò nemmeno allo specchio, non doveva essere un bello spettacolo, non era riuscito a farsi la barba né la doccia, dopo aver pisciato ed essersi sciacquato il viso con abbondante acqua fredda, si infilò gli anfibi, recuperò il parka e la sacca militare e si precipitò in fretta giù dalle scale senza nemmeno aspettare l’ascensore.
Il freddo lo investì non appena fu in strada, rinunciò ad infilarsi il giaccone, dirigendosi a passo svelto verso la propria auto.
Fu fortunato e nonostante l’ora non trovò traffico. Il Volkswagen Golf di Mara era parcheggiato davanti ad una palazzina signorile a tre piani, gli venne in mente di andare a guardare il citofono, ma scartò subito l’idea. Troppo rischioso, con la sua solita fortuna lei sarebbe uscita di casa proprio mentre era lì davanti. Non gli restava che aspettare. Si mise comodo ed attese, prima o poi sarebbe uscita da qualche parte per andare in macchina.
Dopo circa due ore e diverse sigarette che rendevano l’aria irrespirabile nel piccolo abitacolo, dallo specchietto retrovisore notò che la donna stava arrivando a piedi, inoltre che non era sola.
Probabilmente era andata al vicino mercato, aveva in mano vistosi sacchetti che contenevano al’apparenza abiti e scarpe. Il mercato della Crocetta non è il solito mercato rionale, rispecchia a pieno le possibilità economiche degli abitanti del quartiere: frequentato dalle signore della Torino bene e da parecchi transessuali che hanno le loro alcove in questa parte della città, sui banchi e nei negozietti attigui, si trovano le migliori firme a prezzi esorbitanti.
Accanto a Mara camminava un uomo, poi più alto di lei, anche lui con le mani impegnate dai recenti acquisti. Non ci volle molte per Leanza a dargli un nome: si trattava di Ennio Tringale. I due superarono il Renault 4 non degnando lo sbirro nemmeno di un’occhiata.
Leanza si maledisse per non avere a portata di mano la macchina fotografica e non poter immortalare la dolce coppietta mentre entrava in casa. Entrarono entrambi nella palazzina a tre piani che già aveva individuato.
Aspettò una manciata di minuti, poi si decise a scendere dalla macchina ed andare a verificare chi abitasse quelle case.
Sapeva che non si trattava della casa del dott. Tringale, il suo villone di famiglia era poco lontano Ivrea, come prevedeva sul citofono, scopri che c’era un campanello privo di indicazioni, ebbe la certezza che fosse proprio quello di Mara: negli altri due lesse i nomi di una nota società che si occupava di statistiche, nonché quello di tale dottor Mainardi Medico Chirurgo.
“E brava la signora Mara: bella, misteriosa e carica di grana”. Ritornò a passo regolare verso l’auto, guardò l’ora e penso ' che non era il caso di continuare, inoltre finché era in compagnia del suo “pollo”, Mara non lo avrebbe portato da nessuna parte.
Decise di passare in Questura, anche solo per dimostrare che era ancora vivo e che era al lavoro. In ufficio lo salutarono come fosse stato lì tutta la mattina, con malinconia si rese conto che probabilmente la sua presenza era irrilevante. Alla omicidi ti stanno sempre col fiato sul collo, se non quagli qualcosa entro le prime quarantotto ore il caso probabilmente rimarrà insoluto, evidentemente chi tratta con le puttane è destinato a rimanere l’ultima ruota del carro. Accese il computer sulla scrivania più per passatempo che per la voglia di lavorare, sfogliò rapidamente qualche pratica, pensando che alla fine era diventato uno sbirro da rottamare. Non combinò praticamente nulla, aspettando che arrivasse l’ora dell’appuntamento.
Trascinandosi fogli da una parte all’altra della scrivania, si rese conto che doveva avvisare Bea al night:”Merda!!”, si affrettò a chiudere la porta dell’ufficio e compose il numero della donna:”Hei Bea, sono Leanza”. L’anziana tenutaria del night club si dimostrò subito contenta per quella telefonata, quando però l’ispettore cominciò a spiegare che per qualche sera Masha non avrebbe lavorato, non fu felice:” Antonio, liberissimo di metterti nei casini, ma tieni fuori le mie ragazze!!”. Dapprima Leanza cercò di tranquillizzarla, quando però lei rappresentò la perdita di denaro per la sua assenza al locale, lo sbirro le rispose seccamente: ”Bea, siamo amici, ma ricordati che ora sono alla buon costume, sicura che lì da te sia tutto a posto?!”, il silenzio all’altro capo del telefono gli fece comprendere che almeno per quella volta l’aveva avuta vinta. Bea non era tipo da farsi intimorire, in questura conosceva parecchia gente e sapeva di non poter tirare troppo la corda, comunque per un po’ poteva stare tranquillo. Si ritrovò a guardare l’orologio ed accorgersi che era in ritardo, in tutta fretta scese le scale dell’ufficio per raggiungere l’auto e piazza Vittorio. Questa volta trovò traffico, ne approfitto' per rintracciare Pietro Palmisi ed avvisarlo che, da lì a breve, avrebbe dovuto raggiungerlo nella stessa piazza per presentargli la nuova ragazza da portare in villa.
Quando arrivò Masha era già lì ad attenderlo. Indossava un piccolo cappellino che copriva la chioma bionda, inoltre con gli occhiali da sole calzati era quasi irriconoscibile. Il piumino viola corto le lasciava scoperte le gambe, fasciate da jeans chiari elasticizzati. Era di spalle e la riconobbe solo per le forme inconfondibili e perfette del culo. Due rapidi colpi del clacson stonato richiamarono l’attenzione della entrenuse, si voltò di scatto sfoderando uno dei suoi sorrisi migliori.
In tutta fretta lo raggiunse in auto:”Ciao sbirro, dove mi porti?”. La cosa che gli piaceva di Masha era l’ironia, la capacità di sdrammatizzare anche le situazioni pesanti come quella, non fece altro che ricambiare il sorriso, sentendo la mano della donna che provocatoriamente si poggiava sulla patta dei suoi pantaloni, tastando teatralmente il suo membro che non seppe resistere alla tentazione, diventando immediatamente turgido a quel richiamo: ”Devi per forza farlo tutte le volte che ci vediamo?!”. Lo disse sorridendo e levando gentilmente la mano di lei dai calzoni. La ragazza fece un broncio di circostanza, mettendosi la voluminosa borsa sulle ginocchia:”Be, se devo farti un piacere voglio anche io la mia ricompensa”. L’ispettore mise in moto e fece poche centinaia di metri, parcheggiò ed insieme a Masha si avviò sotto i portici della piazza, dove Pietro li avrebbe raggiunti da lì a poco.
Il “pappa” apparve dopo qualche minuto, non si dimostrò affatto sorpreso di vedere Masha: ”Buongiorno ispettore, è lei la ragazza?”. Antonio Leanza, gli sorrise annuendo:” Stasera la porti in villa, la presenti alle altre, vediamo che succede. Tienila lontana dai clienti, solo qualche coppetta, sarà il mio orecchio per ora. Forse vorrò venirci anche io una di queste sere, vedremo”. Masha salutò Pietro, anche lei per nulla sorpresa di trovarselo davanti. Il calabrese le domandò se avesse con se qualcosa di adatto da indossare, Masha annuì rassicurandolo. I due si avviarono insieme, lasciando solo Antonio Leanza.
Lo sbirro percorse a piedi via Po, con un unico pensiero fisso: scoprire la vera identità di Mara, ma soprattutto scoprire quella delle persone che volevano mettere nei guai il giovane Tringale.
Per farlo aveva bisogno di più tempo, trascorse la notte davanti l’abitazione di Mara, aspettò che lei rientrasse, che parcheggiasse la sua auto. Erano quasi le tre del mattino, tutto sommato non aveva fatto così tardi. Questa volta arrivò da sola, parcheggio il Golf davanti casa ed ebbe tutto il tempo di controllare che il sistema satellitare avesse autonomia per qualche giorno ancora.
Un’ora dopo era già a dormire a casa sua, era stanco ed aveva urgente bisogno di una doccia.


CAPITOLO VI

Si svegliò presto, non era riuscito a chiudere occhio. Forse troppa la stanchezza ed il pensiero ricorrente di come se la sarebbe cavata Masha quella notte. Non fece altro che guardare, pressoché per tutta la notte, ad intervalli di mezzora, il proprio cellulare poggiato sul comodino, controllando che la giovane russa non avesse mandato qualche messaggio.
Cominciò a masticare lentamente il rimorso per averla mandata in quel posto, forse non era necessario, ma era l’unico mezzo per avere notizie da dentro, notizie aggiornate e che non fossero viziate da altri interessi che non fossa l’amicizia che quella donna nutriva per lui.
Nel buio cominciò ad immaginarla sforzarsi a ridere con i clienti, origliare quello che dicevano le altre ragazze. Poi i pensieri si fecero più torbidi, allora la pensò con le terga esposte a qualche vecchio danaroso, gli occhi socchiusi e bagnati di lacrime mentre subiva quelle attenzioni, solo perché lui aveva deciso così.
Cercò di cacciar via quei brutti pensieri, l’erezione che aveva appena avuto si placo, in compenso salì un’ansia incontrollata: ora vedeva Masha legata ed imbavagliata, mentre un uomo incappucciato la interrogava crudelmente portandola al punto di non ritorno.
Alle 6.00 del mattino, aveva preso una decisione, doveva scoprire al più presto la vera identità della donna che si faceva chiamare Mara e tirar fuori Masha da quella situazione di merda.
Non era ancora del tutto giorno che accese il PC per controllare dove si trovasse l’auto di Mara. Aspettò che il programma di localizzazione caricasse il percorso di quella notte, sul viso gli spunto un’espressione sorpresa. Non era andata a casa. Il minuscolo puntino rosso lampeggiava in una zona in aperta campagna, in Val Susa, ad almeno un’ottantina di chilometri da Torino.
Cominciò a trafficare in cucina, con l’intenzione di prepararsi un caffè, cercando di tirar fuori dalla propria memoria ogni possibile informazione per localizzare la zona in cui poteva trovarsi l’auto di Mara.
La caffettiera napoletana cominciò a borbottare, fece in tempo a spegnere il gas prima che il caffè traboccasse, per prendere al volo il telefono cellulare che suonava.
Era Masha, probabilmente non era nemmeno andata a dormire:”Buongiorno, sto facendo colazione dopo aver lavorato per te!!”. Antonio tirò un sospiro di sollievo, i brutti pensieri che avevano riempito la notte appena trascorsa, non permettendogli di chiudere occhio, si dissolsero a quel saluto mattutino. Cercò di non far trapelare la sua preoccupazione ed i suoi sensi di colpa, ascoltando quel poco che aveva da dirgli la ragazza:” Ho visto la tua donna dai capelli ramati…” nel tono di voce trapelava la consueta ironia ed un pizzico di gelosia:”Bella donna, raffinata. Sai che ha la voce un po’ mascolina?...Una certezza, su questo ti puoi fidare, non è una puttana, questo lavoro non lo ha mai fatto. Un’altra cosa invece, il suo amico, quell’ingegnere o dottore di cui mi parlavi, non è venuto, infatti tutti la prendevano per il culo”. Antonio ringraziò Masha, rassicurandola che al più presto l’avrebbe tirata fuori di lì, chiuse il telefono e ritornò al suo computer portatile.
Si rivestì in fretta, non c’era molto da pensarci su, piuttosto doveva andare a vedere il luogo. La nebbiolina umida ed un sole pallido caratterizzava quella mattina, l’inverno stava per finire e sentì la primavera nell’aria, anche se sottilissimo strato di brina ricopriva i vetri dell’auto. Gli bastò metterla in moto e concedersi una sigaretta prima di entrare che la visuale all’interno dell’abitacolo fosse completa.
Si lasciò alle spalle i palazzoni di periferia, una volta abitati dagli operai della Fiat, a cui ormai da pochi anni si erano sostituiti nigeriani e nord africani, per giungere finalmente alle strade di campagna appena fuori Torino. Non trovò traffico, si godette le montagne lontane innevate, addentrandosi nella valle. L’influenza valdese era quasi percepibile nei paesaggi e nel fisico delle persone che incrociava, avanzando lentamente verso il suo obiettivo.
Gli ci volle poco più di un ora per arrivare nei pressi della via indicata, trovò una piazzola di sosta per riordinare le idee e non commettere errori. Studiò attentamente le vie e le stradine su cui si doveva trovare l’auto di Mara, che ormai non c’era più da almeno un’ora. Decise di fare un passaggio in macchina, si trovò davanti ad piccola cascina in pietra. C’erano vicine altre villette di recente costrizione, ma la villetta, all’apparenza semi abbandonata, aveva un ingresso indipendente. Il portone di ingresso presentava una serratura nuova, segno che qualcuno aveva provveduto a sostituirla, nonostante l’incuria delle piante, e del giardino intorno alla struttura vetusta. Fece un passaggio rapido allontanandosi immediatamente, cercando un luogo abbastanza distante dove poterla osservare. Ritornò alla piazzola di sosta ove si era già fermato, fortunatamente da lì aveva una visuale completa, fortunatamente nella sacca aveva un piccolo binocolo, non troppo potente ma sufficiente al suo scopo. Passò una buona mezz’ora ad esaminare il cascinale e tutto ciò che accadeva nei dintorni. Ebbe la netta sensazioni che non ci fosse nessuno. Le imposte di legno, verdi e consunte dal tempo, erano serrate, così il portoncino all’ingresso. Nessuna auto parcheggiata. Non aveva molto da fare, decise di tornare in città, gli serviva l’aiuto di uno dei suoi amici, prima di farlo azzardò un nuovo avvicinamento alla casa apparentemente in stato di abbandono. Scatto velocemente alcune fotografie della serratura, dei punti di accesso ed altrettanto velocemente se ne andò.
Nel buio, dietro una delle tante persiane, al buio, qualcuno lo osservava con attenzione.
L’indirizzo di periferia era di strada, non era il caso di preannunciare il suo arrivo con una telefonata, guardò l’ora, sicuramente la persona che cercava, a meno che non fosse in galera, si trovava ancora in casa a dormire.
Dopo aver parcheggiato guardò la sua auto con un po’ di malinconia, consapevole che la percentuale di non trovarla al suo posto quando sarebbe tornato era alta. L’atrio della casa popolare puzzava di merda e minestrone, qualcuno evidentemente stava già cucinando. Spinse il bottone dell’ascensore, ovviamente era guasto, sollevò il capo gettando per terra la sigaretta. Cinque piani a piedi, la solita fortuna.
I muri della tromba delle scale erano cosparsi di scritte di ogni genere, non mancavano disegni espliciti sulle doti di alcuni degli inquilini. Gli scalini erano cosparsi da cicche e da piccole bustine azzurre e bianche in cui veniva conservato lo stupefacente.
Nicu non era uno spacciatore, la sua specialità erano i furti in appartamento, lo aveva conosciuto al “Pink Panter”, nonostante fosse un ladro tra loro era nata una sorta di “amicizia”, una simpatia a pelle che aveva indotto Antonio in più occasioni di darsi da fare per tirarlo fuori dai guai. Non ce che fosse una vera ragione, né il giovane rumeno gli avesse mai passato informazioni, semplicemente si prendevano e quando si trovavano insieme non mancavano di bere insieme, tenendo da parte discorsi professionali.
Sul campanello, com’era prevedibile, non c’era nessun nome, avrebbe potuto suonare, si prese la soddisfazione di svegliare il rumeno a modo suo.
Cominciò a bussare con forza alla porta, tanto da farsi male alla mano:”Polizia!! Aprite!!”. Ripetè quella frase alterandola con colpi violenti alla porta che risuonavano nell’androne delle scale. Nessuno nelle altre abitazioni si prese il disturbo di curiosare, in quel’abitato non era certo inconsueto assistere ad una scena del genere. Sentì del trambusto dentro casa, finchè qualcuno dall’altra parte dell’ingresso aprì un chiavistello ed infine, probabilmente dopo aver guardato attraverso l’occhio magico, la porta che avrebbe ancora retto per poco:”Antonio …vaffanculo!! Sbirro di merda!!! “
Il ragazzo, piccolo di statura, semi nudo, con i capelli lunghi ed unti ed una barba incolta, sorridendo fece entrare Leanza in casa. L’interno dell’abitazione stonava con l’esterno, era arredata con buon gusto, nonostante Nicu abitasse da solo.
La piccola cucina era in stile moderno, mentre il resto dei mobili sembravano pezzi di antiquariato, ad una prima occhiata originali. La porta della camera da letto era socchiusa, si intravedeva il corpo di una donna sdraiata di spalle semi nuda:”Mi spiace disturbare, eri in buona compagnia”. Nicu chiuse la porta:”Ma sei proprio stronzo sbirro”. Antonio, sempre ridendo e godendosi il momento, andò in cucina, scansando lo slavo:”Pensavo ce l’avessi più grosso..” . Si sedette aspettando che l’amico si mettesse qualcosa addosso per poi raggiungerlo in cucina.
Nicu non fece in tempo a sedersi che Antonio Leanza gli aveva già consegnato la sua macchina fotografica:”Credi sia possibile entrare qui dentro stanotte? Senza rompere niente”.
Lo slavo lo guardò interrogativo, facendo scorrere lentamente le immagini sul piccolo display a colori. Si soffermò sulla serratura, zoomando finchè non fu leggibile la marca. Restituì la macchina fotografica allo sbirro, prese il pacchetto di sigarette e ne accese una:”Quanto tempo ho a disposizione?”.
Anche Antonio si servì dallo stesso pacchetto, nell’altra stanza la donna si era evidentemente stufata di aspettare nuda, provenivano rumori stizziti di qualcuno che si stava rivestendo nervosamente:”Prima lo fai meglio è. Comunque andiamo con due macchine, tu mi apri o mi fai entrare in qualche modo poi te la fili”.
Nicu sorrise sornione:”Da quando gli sbirri hanno bisogno dei ladri, mi sa che ti stai cacciando nei guai. Non voglio casini Antonio”.
Sembrava che tutto il pianeta fosse consapevole che l’ispettore Leanza fosse una “calamita per i guai”, quel pensiero lo fece incazzare non poco:”Ma che cazzo avete tutti, nessun guaio, nessun casino, un lavoro pulito ed avrai la mia gratitudine”.
Il rumore della porta di ingresso che sbatteva fece trasalire entrambi. Leanza guardò verso il corridoio:”E poi mi sa che ti sei giocato la scopata, partiamo nel pomeriggio”.
Appena uscito dall’appartamento Leanza pensò di passare da Masha, rinunciò subito a quell’idea, probabilmente vedendola si sarebbe pentito di averla coinvolta in questa stronzata ed ancora aveva bisogno di lei. Telefonò in questura, raccontando che non si sentiva bene e che aveva bisogno di un paio di giorni.
Fece un rapido passaggio davanti all’abitazione di Mara, la sua auto era parcheggiata al solito posto. Infine, senza nemmeno mangiare, se ne ritornò a casa, provo a leggere qualche pagina di un libro sui misteri della sua città e sui riti strani che vi si svolgevano, non lo trovò convincente e si addormentò.
Come previsto Nicu arrivò all’appuntamento con la propria auto, un’utilitaria Fiat color canna di fucile che sarebbe passata inosservata. Erano già passate le 23,00 i due erano in una piazzola di sosta, sullo sfondo La Reggia di Stupinigi, antica dimora di caccia dei Savoia era illuminata. Il lungo vialone per arrivarci era popolato da poche puttane e dai primi clienti della nottata.
Non si scambiarono molte parole, Leanza fece strada con la sua auto e Nicu lo seguì. Dopo poco più di un’oretta ritrovò parcheggio nello stesso luogo ove si era fermato la mattina. Accostò lasciando lo spazio affinchè anche l’amico potesse parcheggiare. Il buio incombeva sia sul cascinale che sulle poche villette vicine. Passarono per i campi, muovendosi silenziosamente. Leanza non aveva con sé la sua sacca militare ed aveva provveduto a lasciare in auto portafogli e chiavi, ogni oggetto che avrebbe potuto perdere lasciando di conseguenza traccia del suo passaggio. Nicu aveva con sé uno zaino, pieno evidentemente degli attrezzi del mestiere. Una volta davanti l’ingresso, lo slavo cominciò ad armeggiare con la serratura, utilizzando una chiave che aveva con sé, provvedendo a limarla per adattarla allo scopo. Dopo venti minuti di lavoro la porta era aperta. Leanza, senza proferire parola, gli mostrò il pollice alzato, lo slavo silenziosamente e scivolando nell’oscurità, si allontano fra i campi.
Quando lo sbirro restò solo, si concedette un lungo respirò che sembrò rimbombare nel silenzio della notte. Aspettò di essere dentro, si richiuse alle spalle la porta di ingresso, illuminando la serratura con una minuscola torcia tascabile.
Le parole che pensò risuonarono nella sua testa come le avesse preannunciate, sentendone l’eco per tutta la casa:”Vediamo che nascondi qui dentro Mara”.


CAPITOLO VII




Non si fidò ad accendere la luce, servendosi di una piccola torcia tascabile cominciò ad esplorare l’ampio salone. Gli arredi erano di fattura comune, nessun tappeto a terra. Dal salone si aveva accesso a tre stanze, inoltre un’ampia scala dava la possibilità di salire al piano superiore. 
Decise di andare direttamente di sopra. Come prevedeva c’erano almeno tre camere da letto di diversa grandezza ed un bagno. Tutto era in ordine e perfettamente pulito, né trovò qualcosa che potesse attirare la sua attenzione, come se le persone che ci avevano vissuto si fossero guardate bene dal non lasciare alcuna traccia di se.
La stessa impressione la ebbe visitando i locali del piano terra. Un salottino con un TV recente, la cucina in ordine con il frigo pieno, le stoviglie pulite e sistemate in ordine nei mobiletti dove ci si aspetterebbe di trovarle.
Tutto odorava di pulito, le persone che vi abitavano erano ordinate ed inappuntabili.
Ritornò nel salone. Sotto la scala vi era una porticina in legno malandata, da cui sarebbe potuta passare una persona abbassandosi, probabilmente si trattava di un ripostiglio. Si maledì di essersi sbarazzato troppo in fretta di Nicu. Le due maniglie erano chiuse da una catena nuova, sigillata da un lucchetto, anch’esso nuovo di zecca.
Con non troppa fiducia provò a scrollare la catene, mettendo mano al lucchetto, si sorprese a scoprire che non era chiuso ma appena appoggiato. Come il bimbo che ruba la cioccolata, guardandosi inutilmente intorno, ben sapendo di essere solo, aprì la porta. La scalinata era breve ed avvolta nel buio, si aspettava di sentire odore di chiuso e di muffa, invece anche il piano sottostante era stato evidentemente ripulito. Fece i primi tre scalini, così da potersi richiudere la porta alle spalle, accostandola. Lì sotto non c’erano sicuramente finestre, cercò quindi la presenza di un interruttore. Lo trovò in cima alla scala, alla sua destra. Una luce al neon illuminò il locale:”Merda!”. Le parole uscirono sussurrate dalle sue labbra, come un fischio di sorpresa. Al centro della stanza qualcuno aveva posizionato un’enorme gabbia in ferro, al cui interno potevano essere rinchiuse almeno due persone. Dentro la gabbia un lettino da campeggio, un mobiletto che avrebbe potuto fungere da comodino, quella che sembrava potesse essere un bagno chimico.
Scese lentamente le scale, estraendo l’arma di servizio, seppur consapevole che non gli sarebbe servita.
“Ma che cazzo…”, in fondo alla stanza, una lampada da fotografo, puntava su una sedia in legno: appeso alle spalle della stessa campeggiava una bandiera rossa, al centro della quale campeggiava un simbolo guerrigliero di colore giallo.
Leanza cominciò a comprendere che si trattava di una “prigione del popolo”. Rimise in fondina la pistola, riflettendo che a tutto aveva pensato, ma non certo a quella ipotesi. Le prospettive su come agire si complicavano, non si trattava di mettere le manette al solito magnaccia, ad un rapinatore, oppure alla solita feccia con cui aveva a che fare; avrebbe dovuto mettere al corrente qualcuno della sua scoperta e la cosa lo infastidiva non poco: troppe spiegazioni, troppe complicazioni:”Merda, merda, merda”.
Si guardò ancora un po’ in giro, su una parete era addossata una cassettiera ed un armadio di grosse dimensioni.
Nella cassettiera era riposta biancheria pulita, ma anche una considerevole quantità di documenti di identità e passaporti, sia in bianco che intestati a persone sconosciute. Li aprì tutti e trovò anche delle targhe di automobili e moto, probabilmente rubate. Nell’armadio invece vi erano dei classificatori, una sorta di archivio composto da ritagli di giornali, documenti di analisi politica, inchieste: evidentemente frutto di mesi di appostamenti ed indagini. Si prese il tempo di guardare il materiale, finchè trovò una piccola cartellina gialla con il nome di Pietro Palmisi. La aprì e vide che c’erano alcune fotografie che lo ritraevano con il piccolo delinquente, evidentemente anche lui era stato pedinato e la cosa non era piacevole. Leggendo il contenuto dell’inchiesta, ebbe la netta impressione che fosse stata scritta da un poliziotto o comunque da qualcuno che faceva il suo stesso lavoro. Infilò la cartellina nella sua borsa militare e risalì le scale, pensando a come uscire indenne dal quel casino in cui si era cacciato.
Una volta fuori dalla villa si accucciò nei pressi di un cespuglio. Poteva sentire il suo respiro ed il cuore che batteva. Fece mente locale, solo quando fu certo di non aver lasciato tracce, con le mani e le unghie sporche di terra, attraversò la notte per ritornare alla sua auto.
L’odore aspro e forte di quello che doveva essere narcotico lo assalì mentre cercava di aprire la portiera del Renault 4. Provò a fare un minimo di resistenza, ma fu del tutto inutile. I rumori sordi di motori di auto, l’aprirsi ed il chiudersi di sportelli, lo accompagnarono in un sonno profondo.
Lo risvegliò un forte mal di testa, per lo meno era ancora vivo. Si rese conto di essere in una stanza buia, priva di finestre, sdraiato su un letto. Provò a muoversi, ma si rese conto di essere legato al letto con dei bracciali di cuoi. Aveva sete, le labbra arse, ma urlò, gridò al nulla con quanto fiato aveva in gola, non ottenendo nessuna risposta.
Una sorta di paura strisciante si insinuò in lui, tanto da convincerlo che forse avevano tutti ragione:ogni cosa che toccava si trasformava in un guaio di dimensioni spropositate



CAPITOLO VIII

 L’unico sollievo era il sonno a cui riusciva a cedere dopo pause che sembravano infinite. Se in un primo momento era stato assalito dai crampi alle braccia, per via della posizione forzata in cui era stato immobilizzato, col passare delle ore cominciò ad accusare i morsi e della fame, ma soprattutto la sete. Il tempo perse sostanza e consistenza. Quante ore potevano essere passate? Non aveva la più pallida idea del tempo che era rimasto addormentato dal momento in ci era stato portato in quel luogo ignoto e sconosciuto. All’inizio aveva valutato che se lo avessero voluto morto, lo avrebbero ucciso subito e che probabilmente per qualche ignota ragione qualcosa sarebbe successo, man mano che però che i minuti passavano la speranza si trasformava in disperazione e frustrazione.
Non riusciva più ad urlare, le corde vocali gli dolevano e soprattutto, quei tentativi di vana ribellione non facevano altro che farli aumentare la necessità di bere.
Gli occhi scrutavano impazziti nell’oscurità alla ricerca di qualche punto di riferimento, qualcosa che gli facesse comprendere dove si trovava. Tutto era sconosciuto, da fuori non proveniva alcun rumore, forse la stanza era insonorizzata.
Sarebbe morto di fame e di sete, forse avrebbero trovati i suoi avanzi, quel poco di carne sanguinolenta ed imputridita che anche i vermi rifiutavano di consumare, forse lo avrebbero trovato solo per via del tanfo insopportabile della sua decomposizione. Sorrise incredulo, quella storia era cominciata con il puzzo del cadavere di PALMISI, anche lui avrebbe seguito la stessa sorte.
Sete, fame, buio, sonno, si alternavano in un ritmo infinito su cui aveva perso il controllo. Allo stesso modo aveva perso il controllo della sua mente, completamente allo sbando i ricordi si sfumavano con i sogno, un ciclo continuo che avrebbe finito per farlo impazzire.
Il freddo gelido lo risveglio improvvisamente, provò ad aprire gli occhi accecato dalla luce che proveniva dalla finestra aperta. In preda alle convulsioni ed al tremore, ci vollero alcuni minuti per comprendere che qualcuno era arrivato.
Dapprima forme sbiadite, un armeggiare frenetico nella stanza e sulle cinghie che lo tenevano prigioniero, poi le ombre presero forma, perfezionate dalle voci che lo esortavano a riprendersi:”Antonio, Antonio, hei…bevi un po’ d’acqua, su è tutto finito!”. Alla voce femminile faceva eco quella maschile:”Amico su, dobbiamo andar via di qui!!”.
Bevve avidamente, bagnandosi le labbra ed inzuppandosi la maglietta. Non ricordava che l’acqua fosse così buona. Lentamente riuscì ad aprire completamente gli occhi, abituandosi alla luce, riconobbe Masha e Nicu, entrambi avevano il viso preoccupato e lo guardavano come se fossero riusciti a risvegliare un cadavere. Deglutì, poi la sola parola che riuscì a pronunciare fu “…Acqua…”.
La donna scomparve per qualche istante, ritornando poco dopo col bicchiere pieno. Antonio bevve avidamente, tossendo. Bastò uno sguardo con Nicu per fargli capire cosa voleva, il rumeno accese una sigaretta e gliela passò. Aspirò profondamente, si passò la mano sul viso, constatando che aveva la barba vecchia di almeno due giorni:”E voi due che cazzo ci fate qua. Che ore sono, che giorno è”. Senza aspettare risposta si sedette sul letto, provò a scendere ed a mettersi in piedi. Un senso di vertigine ebbe la meglio, sarebbe caduto per terra se Nicu non si fosse affrettato a sorreggerlo.
Si sentì ad un tratto nudo, abbandonò il pensiero di essere salvo e con gli occhi esplorò la piccola stanzetta, finchè non vide ordinatamente appoggiati su una sedia il suo parka, il portafogli, la sua pistola in fondina, nonché per terra la sua sacca militare, svuotata del contenuto.
Nonostante le insistenze dei suoi amici lo sbirrò si alzò dal letto, questa volta riuscì a stare in piedi, barcollando e sorretto dalla ragazza raggiunse la sedia. Si infilò il portafogli in tasca, controllò la sua arma. Trovò strano constatare che il caricatore era inserito, completo di tutti i proiettili. Si accasciò sulla sedia:”Mi spiegate che cazzo succede?!”.
Masha si accomodò sul letto, era tutta la notte che aspettava quel momento, per togliersi quel peso dallo stomaco:”Mara è scomparsa da ieri sera Antonio, almeno credo sia scomparsa. Verso le otto di eri è venuta in villa, non si è nemmeno cambiata. Non ha salutato nessuno, appena mi ha visto però mi ha dato un bigliettino con un indirizzo, dicendomi che ci sarei dovuta andare stamattina, insieme con il mio amico rumeno, che mi sarebbe servito. Mi ha anche detto di non avvisarti e che tu avresti capito. E’ da ieri che provo a telefonarti, ho chiamato tutta la notte, avevi il cellulare spento, mi sono preoccupata. Stamattina ho sentito la radio ed ho comprato il giornale, così ho immediatamente rintracciato Nicu e siamo corsi qua”. La ragazza con la testa indicò l’amico scassinatore:”In due giorni mi è toccato aprire due porte sbirro, appena siamo arrivati qui Masha ha insistito perché entrassimo”, lo slavo squadrò la giovane russa con occhi sornioni, venendo ricambiato con lo stesso interesse:”Non ho saputo dirle di no, ed eccoci qua”.
Masha, senza proferire parola, consegnò a Leanza il quotidiano del mattino. Lo sbirro si accese un’altra sigaretta, la nicotina aveva smorzato la fame, in prima pagina c’era il bel faccione del Tringale. Diede una rapida occhiata alla data, era stato rinchiuso lì dentro per quasi trentasei ore. Il titolo in prima pagina non lasciava dubbi su quello che era successo, in realtà Leanza avrebbe già potuto ripeterne il contenuto, lo lesse comunque a mezza voce, quasi volesse sentirselo ripetere per esserne sicuro:
“Ritorna il terrorismo. Giovane imprenditore sequestrato nella notte.
La scorsa notte un commando di terroristi, sotto la minaccia delle armi ha costretto l’assessore Tringale a salire su un furgone dileguandosi nella cintura del capoluogo piemontese. Le ricerche, scattate nell’immediato, non hanno ancora dato alcun esito. L’azione è stata rivendicata quasi contemporaneamente con una telefonata all’Ansa di Torino…”.
Leanza guardò prima Masha, poi Nicu:”Devo andare”, cominciò a prepararsi raccogliendo le sue cose:”Quindi Mara è sparita? E Pietro?”.
La russa rispose immediatamente, avvertendo che qualcosa di grave stava per accadere:”Te l’ho detto Mara da ieri sera è andata via dalla villa senza fornire spiegazioni, non si è nemmeno cambiata e mi ha lasciato questo indirizzo…anche Pietro ieri sera non si è fatto vedere, strano di solito passa tutti i giorni, lo sai”.
Leanza aveva ormai indossato il suo Parka, prese la sua sacca militare, ormai rimasta vuota:”Andiamo via di qua”.
Diede appena un’occhiata veloce all’appartamento in cui si trovava, che non aveva mai visto. Si richiusero la porta alle spalle, si rese conto che c’era solo una rampa di scale per raggiungere il portoncino di ingresso. Solo quando fu fuori riconobbe la casa. Era l’appartamento alla Crocetta dove tante volte aveva pedinato Mara. Non riusciva a comprendere quella donna, il perché di quel comportamento, lo aveva salvato? Era tutto programmato? Eppure c’era in mezzo fino al collo, d’altra parte non era riuscito nemmeno a darle un nome.
Accompagnato da questi pensieri si accorse che era senza auto, soprattutto era senza telefono cellulare.
Si voltò verso i suoi accompagnatori, notando che si tenevano per mano, a volte le situazioni di un certo tipo finiscono per unire le persone:” Ho bisogno di una macchina e di un cellulare”. Nicu, imbarazzato, lasciò la mano di Masha, tirò fuori le chiavi di un’Audi”Mi raccomando Antò è nuova, ho pagato solo due rate”. Masha, tirò fuori dalla borsa da studentessa il suo telefono e lo consegnò. Antonio prese celermente ciò che gli serviva e si allontanò a passo veloce:”Mi raccomando voi due, mi faccio sentire. Grazie”.
A passo veloce raggiunse l’auto tedesca. Litigò col telecomando ma alla fine riuscì ad aprirla. Mise in moto e fu costretto a fare quelle telefonate che mai avrebbe voluto fare.
Non appena l’auto fu in moto, partì la radio a tutto volume, cominciò a cercare un notiziario, mentre il telefono del suo funzionario in Questura squillava.
Quando il dottor Lombardi rispose, non era affatto felice di sentire la voce del suo ispettore:”Leanza, toh chi si fa vivo. Ti ricordi? Lavori qui, lieto di sentirti. Brutto stronzo ma che fine hai fatto!!” Aspettò che il suo superiore si sfogasse, passando dal consueto tono ironico agli improperi, poi cercò in se tutta la calma per rispondergli:”Dottore ha ragione, ma è una faccenda importante. Non posso spiegarle adesso, ho bisogno del dottor CASU della DIGOS, sarà lui ad accennargli qualcosa dopo che lo avrò sentito”. Non gli diede nemmeno il tempo di replicare, attaccò il telefono sapendo che l’altro in quel momento stava urlando come un matto, probabilmente richiamando l’attenzione di mezza Questura.
Il dotto CASU dell’antiterrorismo rispose al secondo squillo:”Forse so dove tengono prigioniero Tringale”.
Dopo che ebbe spiegato in breve la situazione al CASU, fornendogli l’indirizzo della casa di campagna dove poter essere raggiunto, i dubbi cominciarono ad assalirlo.
Aveva dato per scontato che Tringale fosse ancora lì, ma probabilmente i sequestratori, dopo la sua scoperta lo avevano già portato da un’altra parte. Si sentì un novellino, consapevole della leggerezza appena commessa e delle conseguenze che ci sarebbero state, sperò di sbagliarsi. Non gli restava che andare a scoprirlo da sé .
Accendendo una sigaretta dopo l’altra guidò verso la il casolare, c’era un sole freddo che non prometteva nulla di buono.



CAPITOLO IX

 Arrivò per primo nella piazzola di sosta, con un’ansia crescente e la stanchezza che gli indolenziva le ossa, scese dall’auto. Individuò immediatamente il casolare, si prese qualche minuto prima di richiamare il dottor Casu della Digos. Anche ad occhio nudo si accorse che le imposte del piano superiore erano aperte. Non c’era alcuna traccia di auto o furgoni parcheggiati nella zona antistante all’abitazione. Ebbe la certezza che comunque qualcuno era stato lì. Non potè fare altro che telefonare in questura e fornire ogni utile elemento per raggiungerlo. La telefonata con Casu fu rapida, il dirigente di polizia si limitò ad ordinargli di trovarsi un buon posto di osservazione, che gli avrebbero dato a breve il cambio, inoltre che quella notte stessa avrebbero fatto irruzione nella vecchia casa di campagna. Trovare il posto giusto non fu facile, attraversò alcuni campi infangati, con i jeans completamente bagnati sui polpacci, finalmente potè infilarsi tra alcuni cespugli che conservavano poche foglie appese ad alcuni rami secchi. Solo sdraiandosi e graffiandosi il viso riuscì ad osservare senza essere visto. Attivò il proprio sistema GPS sul computer portatile, mandò uno short message al Casu fornendogli le proprie coordinate per ricevere il cambio. Aspettò almeno due ore, rimanendo in osservazione, senza che la situazione cambiasse. Il tepore del sole di marzo cominciò a scaldargli il corpo, almeno due volte sentì il sonno arrivare, nonostante l’agitazione. Si costrinse a tenere gli occhi aperti, constatando che il casolare era sempre lì e che nessuno lo avrebbe portato via. Quando arrivò il suo sostituto, sentì il fruscio dei suoi passi alle sue spalle, ebbe così la certezza che si trattava di personale idoneo alle irruzioni, utilizzato in situazioni di emergenza come quelle. Non si parlarono, limitandosi a scambiarsi dei gesti. Leanza scivolò via, percorrendo la strada inversa, cercando di non sfigurare nel suo muoversi impacciato. Arrivato all’auto potè finalmente accendersi una sigaretta, entrò nell’abitacolo e fece le sue telefonate. Immediatamente provò a contattare Pietro, non ottenendo risposta. La seconda chiamata la fece al dottor Casu, rassicurandolo dell’avvenuto cambio e dandosi con lui appuntamento al commissariato più vicino. Quando arrivò al presidio della Polizia c’erano parecchie auto parcheggiate, riconobbe quelle della Digos torinese, erano lì ad aspettarlo. Dovette spiegare le cose più volte, non mancarono le critiche nei suoi confronti ed i reciproci insulti, tanto che l’agente di guardia fu costretto a mandar via alcuni cittadini ed a chiudere temporaneamente gli uffici. Il suo capo gli fece intendere che questa volta non se la sarebbe cavata, che nella migliore delle ipotesi lo aspettava un bel posticino a Lampedusa ad attraccare i barconi degli immigrati. Il dirigente della DIGOS fu più comprensivo, alla fine era chiaro che tutta questa faccenda gli avrebbe scaricato un bel po’ di responsabilità. Dopo circa un paio d’ore di litigi, urla, insulti, finalmente qualcuno tirò fuori le planimetrie del casolare per pianificare l’intervento, che sarebbe avvenuto da lì a qualche ora e solo al calar della sera. Leanza ascoltava passivo, non osava intervenire né aveva le forze per farlo. Gli esperti dell’antiterrorismo si divisero i compiti, la faccenda era delicata e bisognava ridurre al minimo i margini di rischio, se qualcosa fosse andato storto sarebbero saltate molte teste. Le ore che seguirono furono dedicate al riposo, Antonio si distese su una poltrona in similpelle. Ogni volta che si rigirava scricchiolava, non riuscì a chiudere occhio, seppur il suo fisico necessitava di riposo. Forse avevano ragione tutti gli altri, aveva combinato un bel casino. Verso le 21.00 il commissariato si riempì di agenti, molti dei quali a lui erano sconosciuti. In un sistemare di armi ed apparecchiature per la trasmissione radio, stette ad osservare, adesso la stanchezza era stata sostituita ad un’agitazione che faticava a trattenere. Più volte controllò il cellulare, sperava in una telefonata di Masha, o di Palmisi, qualsiasi aggiornamento che gli avesse potuto evitare la figura di merda che si accingeva a fare. All’una circa del giorno dopo, tutti erano pronti all’irruzione del casolare. In un primo momento quello stronzo di Lombardi provò a tenerlo fuori, adducendo scuse di ogni genere, alla fine grazie alle insistenze di Casu gli fu concesso di partecipare all’operazione, ma solo come osservatore. Non ci misero molto a cinturare il casolare, quando tutti furono ai loro posti, gli agenti si calarono sul viso il passamontagna celando i loro volti. L’unico col volto scoperto era lui. L’ariete ruppe il silenzio della notte con tonfi fragorosi, dopo un paio di colpi la fragile porta in legno cedette e furono dentro. L’azione durò non più di due minuti. Leanza vide solo i fasci di luce delle torce che strisciavano sulle pareti, lungo le scale, le urla decise e concitate degli agenti, seguite dal’esplosione di un paio di flashbang, lo scossero, inducendolo a tirar fuori l’arma dalla fondina. I tre uomini semi nudi, che dormivano al piano di sopra, non fecero in tempo a raggiungere le loro armi, così furono catturati senza alcun spreco di munizioni. Con le mani legate da fascette di plastica i tre individui vennero accompagnati nell’ampio salone al piano terra. Non dissero una parola, tennero gli occhi bassi, quando Leanza indicò la via che conduceva al seminterrato. Leanza tirò un respiro di sollievo. Tringale era nella gabbia, il volto spaventato. Indossava una tuta da ginnastica troppo piccola per la sua misura, era incatenato ad una caviglia, seduto sul letto da campeggio. Si sentì una pacca sulla schiena. Il dottor Casu era felice come, una pasqua, stavolta sarebbe diventato questore. Una volta libero il Tringale venne portato via, mentre cominciava la perquisizione e la catalogazione di tutto ciò che era presente nel casolare. I tre personaggi, come c’era da aspettarsi, si dichiararono prigionieri politici per poi chiudersi in un disperato silenzio. Era il momento giusto, approfittò di quel trambusto e della gioia collettiva per uscire fuori, con la scusa di una sigaretta. Trovò il cespuglio dietro il quale si era nascosto, scavò il primo strato di terriccio e recuperò il dossier che lo riguardava, indisturbato riuscì a nasconderlo nella sua sacca. La sua assicurazione, sapeva che tutta questa storia avrebbe avuto un seguito, non voleva certo essere lui l’unico a rimetterci le palle.


CAPITOLO X

Una sfilza di auto, cominciò ad allontanarsi progressivamente dal casolare, scomparendo nella notte, fra lo stridio di gomme e bitonali accese che urlavano il silenzio. Le luci blu sembravano fuochi d’artificio ed i vari funzionari presenti, tutti armati di cellulare, erano impegnati a tranquillizzare le alte sfere circa il successo appena raggiunto.
Leanza li conosceva bene, avrebbe potuto ripetere ogni singola conversazione. Ossequiosi si lasciavano andare a ricchi particolari sulla pericolosa operazione di polizia, già pregustando avanzamenti di carriera e promozioni. Sapeva che la mattina successiva ci sarebbe certamente stata una conferenza stampa, alla quale ovviamente non sarebbe stato invitato.
Approfittò di questo stato di confusione generale per dileguarsi. Raggiunse l’ Audi di Nicu ed andò via, aveva un po’ di cose da fare, nessuno si sarebbe accorto della sua assenza.
Stranamente non aveva sonno, fu facile raggiungere la città, vista l’ora. Arrivò a Torino che le prime luci dell’alba non avevano ancora svegliato quelli del primo turno in Fiat. La Stazione di Porta nuova era pressoché deserta, troppo presto per i pendolari. Solo pochi zombie vagavano stanchi fra le macerie della loro vita: tossici, clochard, qualche puttana.
Andò direttamente al deposito bagagli, pagò in fretta e consegnò il suo zaino, conservando in tasca la ricevuta. Si concedette un caffè, aveva finito le sigarette, nervosamente si rifugiò nuovamente in auto e ripartì.
Aveva bisogno di qualche ora di sonno, ormai però albeggiava e probabilmente avrebbe dovuto rimandare.
Fece parecchi giri prima di parcheggiare proprio sotto l’abitazione di Masha. Il posto lo avrebbe trovato immediatamente, ma preferì non rischiare, verificando con ossessione se qualcuno lo stesse seguendo.
Quando fu certo di essere solo, andò al portoncino di ingresso del palazzone storico in cui viveva la ragazza. Il cortile era deserto, così anche i ballatoi ove un tempo vi erano allestiti i cessi.
In quelle case una volta vi abitavano i terroni, come lui, ora erano il regno degli immigrati, il punto di partenza, il primo squallido scalino nella ricerca della felicità.
Salì silenzioso le scale, avrebbe potuto usare le chiavi, preferì bussare, evitando anche il campanello.
Provò più volte a percuotere il pugno sul legno duro e antico della porta, finchè sentì dei movimenti e fu certo che qualcuno lo aveva sentito.
Gli aprì Nicu, Leanza non ne fu particolarmente stupito. Il rumeno indossava solo un paio di jeans, che evidentemente aveva indossato di fretta. Leanza entrò nell’abitazione avvolta nel buio, con la mano leggermente sollevata scuoteva le chiavi dell’Audi:
”Grazie! E’ tutta intera.” Nicù gliele strappò di mano, con un grugnito.
Lo sbirro sostò per poco nel corridoio che conosceva bene, notò che l’amico aveva i capelli arruffati ed il viso segnato da una notte insonne. Si accorse di un cuscino ed una coperta appallottolata sul vecchio divano. Stentò a trattenere un mezzo sorriso, probabilmente non riuscendoci del tutto:
”Nottataccia?!”
“Vaffanculo sbirro”.
Ora il sorriso sul volto dell’ispettore era probabilmente più evidente, perché Nicu preferì battere in ritirata, dirigendosi verso il bagno:”Vado a pisciare”.
La porta della stanza di Masha era socchiusa, immersa nella penombra la ragazza era sdraiata su un lato. Lo aveva però evidentemente sentito, perché quando entrò si mise a sedere, stropicciandosi gli occhi:”Ma che ora è!?”
Senza alcuna ragione plausibile era contento di trovarla a letto da sola, indossava una delle sue magliette militari, che aveva lasciato in casa e che usava le poche volte che si fermava a dormire lì. Le stava grande e le forme del seno erano appena percettibili, sembrava ancora di più una ragazzina.
“E’ presto Masha. Sono venuto a portare le chiavi a Nicu. Grazie per quello che hai fatto per me.” Fece una lunga pausa, scorgendola sorridere nel buio:
”Per un po’ meglio che non mi faccia vedere, però se hai bisogno sai come trovarmi”.
La ragazza, si fece d’un tratto seria, fu giusto un’espressione sfuggente che probabilmente solo lui avrebbe saputo cogliere, poi il sorriso ritornò sulle sue labbra:
”Va bene sbirro, tanto anche tu sai dove trovarmi”. Allungò divertita la sua mano verso il bassoventre di Leanza, agguantandolo come suo solito, impastando come un gatto prima di dormire.
Antonio non trattenne una risata, scostando il bacino da quella presa languida:
“Sei sempre la solita!”
“Be, sei sempre in debito e devi pagare l’affitto, ispettore! Ora vai se no mi commuovo”.
Leanza uscì dalla stanza e poi dalla casa, accompagnato alla porta da Nicu:
”Abbi cura di lei, è una brava ragazza”.
Riuscì a tornare a casa, farsi una doccia, sbarbarsi e mangiare qualcosa. Ancora non sapeva che fine aveva fatto la sua Renault 4, così raggiunse la Questura in tram. Erano da poco passate le dieci, il via vai inconsueto di giornalisti alla Mobile ed alla Digos, gli diede la certezza che da lì a breve ci sarebbe stata la conferenza stampa.
Non durò molto, gli bastò appostarsi nei pressi dell’ufficio del dottor Casu per avere la conferma di quello che già sapeva.
Dopo tanti anni a Torino conosceva bene quel tizio, sapeva per che Agenzia lavorava e certamente non era casuale la sua presenza in Questura quella mattina.
Che ci fosse lo zampino delle “barbe finte” in tutta quella faccenda lo aveva sospettato fin dal’inizio, quando poi il tizio, incrociando il suo sguardo, abbozzò una smorfia, fu pervaso dall’incertezza. Era lui ad aver rotto le uova nel paniere, oppure era solo una pedina in un gioco più grande di lui.
Un pizzico di rabbia gli montò dentro, detestava essere manovrato da quegli stronzi, nonostante la cosa fosse andata a buon fine. Scese in fretta le scale, deciso ad allontanarsi da quella merda il più presto possibile, consapevole che ancora la partita non era finita.
Appena fuori vide Mara, era appoggiata ad un’auto di grossa cilindrata, evidentemente aspettava il suo capo. La donna gli sorrise:”Cazzo, tutti contenti gli spioni stamattina!”.
Evitò di avvicinarsi, anche se la tentazione era forte. La donna, tirò fuori dalla tasca un telefono cellulare e cominciò a muoverlo, appena sopra la testa, un movimento ondeggiante come i suoi fianchi quando si faceva sbattere dal Tringale.
Leanza si allontanò, con stampato in mente quel sorriso e quel rapido gesto, con cui evidentemente voleva indicare qualcosa.
Dopo qualche secondo, sul suo cellulare, arrivò un messaggio:”Collega! Te ne vai senza salutare? Credo che io e te dobbiamo parlare. Alle 13.00 dove tu sai!”
Gli toccava andare alla Crocetta a piedi, fottuti bastardi.
Se la prese comoda, girovagando per il quartiere, per poi appostarsi a lungo davanti la casa nel quale era stato prigioniero.
Puntuale, alle 13.00, suonò il campanello e lei venne ad aprire.
Indossava una camicetta jeans, sbottonata più del dovuto, pantaloni dello stesso tessuto ed era scalza.
Lo fece entrare velocemente:”La casa la conosci Leanza, mettiti comodo”.
Dalla piccola cucina proveniva odore di cibo, si rese conto che non mangiava da tempo:
”Ho preparato un piatto di pasta, oppure preferisci discuterne in camera da letto”.
La battuta non fece ridere affatto l’ispettore, si tolse il parka appoggiandolo sopra una sedia. Rivide la camera in cui era stato legato, il letto disfatto:”Potrei legare te questa volta, so che certi giochini ti piacciono e non credo sia tutto lavoro”.
Oltrepassò quella stanza e si sedette in cucina. La donna lo raggiunse, in silenzio servì la pasta in tavola e stappò due birre.
Leanza, incrociando lo sguardo di lei, notando che la sua battuta dura non aveva sortito l’effetto sperato, cercò di finire il cibo nel piatto.
Concessosi una lunga sorsata di birra, dopo essersi acceso una sigaretta senza chiedere permesso, prese a parlare:”Voglio la mia cazzo di macchina, ci tengo!”.
Mara, o come si chiamava, prese dalla borsetta le chiavi del Renault 4 e le poggiò sul tavolo:
”E’ parcheggiata sotto casa tua, se ci fossi andato te ne saresti accorto. Cazzo Leanza è stato lavoro, sono due anni che lavoravo su sta cosa, non potevamo fare in maniera diversa.”
Leanza afferrò le chiavi e le mise in tasca, finì la birra:
”Bhe, visto che c’ero anche io dentro a tutta questa faccenda, poteva essere gestita diversamente, non credi?..Mara? ..Non so nemmeno il tuo nome. Si, lavorate veramente bene, facendo rischiare il culo ai colleghi”.
La donna si accese una sigaretta, allungò una mano per sfiorare quella dello sbirro:
”Mi chiamo Margherita, non cercare di farmi sentire in colpa!”.
Il silenzio prese il sopravvento, Leanza sfilò dalla tasca la ricevuta del deposito bagagli e la poggiò sul tavolo, proprio sotto il suo pacchetto di sigarette.
Margherita guardò con curiosità:”Di che si tratta?”.
Antonio si alzò, notando che le birre erano finite. Aprì il frigo e si servì da solo, stappandone una anche per Margherita.
“Diciamo che è una sorta di assicurazione, alcune cosette che ho trovato al casolare, i giornalisti e la procura le troverebbero molto interessanti. A proposito mi deve chiamare Magrini del Corriere, domani mi vuole vedere, che ne pensi? Vado a prendermi un caffè con lui?”.
Il volto della donna si fece duro e deciso:”Cosa vuoi in cambio Leanza”.
Lo sbirro rimise la ricevuta in tasca, bevve dell’altra birra, accese un’altra sigaretta:
”Giocare al salta salta sul lettone, mi ci sono affezionato”. Notando che Margherita non rideva, si fece serio anche lui:
”Nulla di impossibile: rivoglio il mio posto alla omicidi, meglio i morti ammazzati che le troie. Voglio sistemare una mia amica che tu conosci bene, è sveglia ed ha contribuito alle indagini. In ultimo un’altra cosetta: Anna Barolo, la voglio libera, voglio che raggiunga il Palmisi, ritengo sia il minimo. Poi suo marito era un gran figlio di puttana”.
Margherita si alzò di scatto:”Ma ti sei bevuto il cervello?? Va bene tutto, ma Anna Barolo è in carcere”.
Leanza si alzò, si rimise il parka. Tirò fuori la ricevuta dalla tasca e cominciò a farla ondeggiare, appena sopra la testa. Proprio come lei aveva fatto col cellulare la mattina.
“Troverete il modo, siete bravi in queste cose”.
Una volta in strada cominciò a camminare lentamente, ripensando a tutto quanto.
Arrivato sotto casa, notò che la sua Renault 4 era lì. Non si prese il disturbo di aprirla, salendo al proprio appartamento.
Un senso di solitudine lo assalì appena dentro. Gli sembrava di mancare da un secolo, eppure era stato via appena un paio di giorni.
Nonostante l’odore di chiuso non aprì le imposte, accese la luce del soggiorno e della cucina.
Mentre si spogliava, sentì il suono insistente della segreteria telefonica. Erano presenti sei messaggi.
Riconobbe la voce di Elena, era preoccupata:
”Antonio, non rispondi al cellulare, non rispondi a casa, comincio a preoccuparmi! Fatti vivo appena puoi!”.
Si soffermò a pensare a lei, era un po’ che in effetti non la sentiva. D’altra parte era sposata. Si erano conosciuti, amati, poi aveva deciso di tenerla lontana da quella merda che era il suo lavoro, immaginando che potesse essere felice con qualcun altro.
Le cose erano andate diversamente, il matrimonio con quel qualcun altro era avvenuto, ma continuavano ad amarsi a distanza.
Decise di chiamarla. Come sempre un pizzico di ansia lo assalì, mentre sentiva il suono del telefono libero:”Antonio, cazzo non son sola! Tutto bene?!”
Leanza si prese qualche attimo, conscio di aver fatto una stronzata a chiamarla a quell’ora:
”Si Elena, ho visto i messaggi. Senti, domani vengo in Sicilia, prendo il primo volo, magari ci vediamo, stiamo un po’ insieme.”
Sentì il tono felice di lei a quella notizia:”Va bene, cercherò di trovare il modo, a presto Antonio”.
Riuscì a prenotare il primo volo per la mattina successiva, non riuscì ad ingurgitare nulla, stette molto sotto il getto di acqua bollente e, finalmente, riuscì a dormire.
Il volo fu puntuale, alle 9.00 della mattina successiva l’aereo toccò il suolo del Fontanarossa di Catania. La vista dell’Etna innevato, contribuì a far sciogliere le ultime preoccupazioni.
Nell’area arrivi, ad attenderlo, c’era Elena, o meglio c’era il suo sorriso. Comprese che aveva la stringente necessità di trascorrere qualche momento tra le lenzuola con lei, aveva bisogno dell’odore del mare di inverno, aveva bisogno di qualche attimo di normalità.
Rimase un momento solo ad aspettarla fuori dall’aeroporto, mentre la donna andava a recuperare l’auto.
Rilesse il titolo di testa del Corriere, acquistato a Torino prima di partire:
”Eclatante Evasione al carcere delle Vallette. Anna Barolo, responsabile della morte del marito, è evasa in circostanze non chiare. Ora si cercano i complici”.
Pensò che in queste cose Margherita ed i suoi amici erano veramente bravi, prese il cellulare e scrisse un ultimo SMS, prima di spengerlo per i prossimi tre giorni:
”Collega! Ti mando per posta quella ricevuta. Così potrai andare a prendere il tuo bagaglio a Porta Nuova”.
Elena arrivò sorridente, facendogli scordare tutto.
(I fatti e le persone citati sono del tutto frutto della mia immaginazione, ogni riferimento alla realtà è del tutto casuale e non voluto. Ringrazio tutti coloro che volontariamente ed involontariamente hanno contribuito alla mia piccola storia)





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