domenica 23 novembre 2014

PUTTANE ADDIO di Andrea Lagrein




Entrai nel bar tabaccheria di Gino per comprare le sigarette. Erano le cinque e mezza di un freddo pomeriggio di settembre. Seduto a un tavolino vicino alla vetrina c'era Giorgio, che sorseggiava lentamente il suo bianchino. I nostri sguardi si incrociarono e lui mi fece un cenno di saluto con la testa.
Mi avvicinai e mi sedetti al suo fianco, ordinando una birra. Non avevo granché da fare e la sua compagnia era sempre stimolante.
"Sai che giorno è oggi?" mi domandò guardando fuori dal locale. "Venerdì" risposi senza esitare. "Venerdì venti settembre duemilatredici. Già". Il suo successivo silenzio mi incuriosì. "E dunque?" chiesi divertito. Posò i suoi vecchi occhi senza eta su di me. "Dunque son già passati cinquantacinque anni da quel giorno". Lo guardai senza capire.
Giorgio era un uomo di settantacinque anni che di cose ne aveva viste e passate durante la sua vita. Era una sorta di memoria storica per noi altri perdi giorno del quartiere, tipo un vecchio saggio del villaggio sempre pronto a dispensare utili consigli.
Socchiuse gli occhi, come volesse rivivere quei momenti, come se quei momenti non fossero mai finiti. Socchiuse gli occhi e iniziò a raccontare.

Quel venti settembre del 58 uscii presto dalla fabbrica in cui lavoravo. Non volevo perdere tempo, che di tempo ormai ce n'era davvero poco. Corsi a casa e mi feci un bel bagno. Indossai il mio abito migliore, che poi tanto bello non era, ma avevo vent'anni e in casa di soldi ce n'erano pochini. Quindi presi il treno, destinazione Milano. Mi accorsi che, come me, tanti altri avevano avuto la stessa idea. Non si poteva certo biasimarli. Quella puttana di una socialista aveva vinto la sua battaglia e, per tutti noi, dalla mezzanotte di quel giorno, il mondo non sarebbe più stato lo stesso.
Avevo in tasca due mesi di stipendio. Una bella fortuna per quei tempi, non c'è che dire, ma vacca troia quel giorno sarebbe rimasto negli annali della storia, e io volevo celebrarlo come si conveniva.
Sceso dal vagone, mi diressi subito in Brera, via Fiori Chiari. La Lidia sarebbe stata la prima, e non poteva essere altrimenti. La Lidia era la puttana che mi aveva fatto diventare uomo, sì, insomma, quella che mi aveva sverginato. Non un grandissimo momento, lo riconosco, che forse non son durato nemmeno un minuto. Ma da allora rimase per sempre la mia Lidietta, e ogni mese tornavo a farci una bella visitina.
Lavorava nella casa della sciura Beatrice, un baldraccone grande e grosso sfatto dall'età e dalla professione, buona solo oramai per fare la tenutaria di bordelli. Madame, si faceva chiamare pomposamente, alla francese, lei che di francese non aveva nulla, lei che in Francia non c'era mai stata. Ma non aveva importanza, che per me, l'importante, era di chiavarmi la mia Lidietta.
In via Fiori Chiari c'era già un bel via vai di persone, nonostante fosse ancora presto. Ma quel giorno era speciale e si vede che ognuno voleva dare un ultimo saluto a chi per una o per decine di volte l'aveva fatto sentire bene.
Entrai nella casa di Madame. Appena mi vide mi sorrise compiaciuta. Evidentemente si aspettava proprio che io arrivassi. Si avvicinò ancheggiando il suo enorme culo e mi accarezzò un braccio. "Te la vado a chiamare immediatamente, Giorgio. Cosa vuoi fare? Una singola, una doppia, una mezz'ora?". Le pagai il dovuto. Mezz'ora con la Lidia. Non è che potessi permettermi molto di più!
Lei arrivò subito dopo. Il cuore mi pulsava all'impazzata, non tanto perché stessi per scoparmela, ma in quanto sarebbe stata l'ultima volta.
Era bellissima in quella sua vestaglia trasparente, le forme piene e generose, la pelle candida, i capelli color del mogano e gli occhi azzurri come il mare, io che il mare non lo avevo mai visto. Il suo sorriso mi scaldò subito il cuore. Il suo abbraccio mi fece impazzire. "Speravo proprio di vederti oggi, Giorgio" mi sussurrò all'orecchio. Arrossii di piacere. Per nulla al mondo avrei mai rinunciato a quell'ultima volta.
Prendendomi per un braccio mi accompagnò su per le scale fino alla solita stanza. Dalle porte attigue si potevano ben sentire gli ansimi di chi aveva avuto la mia medesima idea. Non so come spiegarlo, ma una sorta di strana tristezza mi avvolse improvvisamente. Avevo la netta percezione che il mondo fin lì conosciuto stesse definitivamente dissolvendosi.
Ma appena entrato in camera tutto svanì come d'incanto davanti a quel corpo meraviglioso. Mi sorrise maliziosa. "Sta calmo, Giorgio. Abbiamo mezz'ora. Non bruciare tutto in un minuto" disse scoppiando a ridere.
A dire il vero di stare calmo non ne avevo la minima intenzione. Il suo culo, le sue tette, le sue cosce avevano il potere di infiammarmi completamente e non sarei riuscito, ne ero certo, a resisterle a lungo. Le lasciai appena il tempo di sbottonarmi i calzoni. L'afferrai per le natiche e la impalai lì in piedi, senza perdere tempo, con un desiderio che quasi mi stordiva.
La fottei con furia selvaggia, tenendola sollevata con le mie braccia duramente allenate in fabbrica. Lei stessa, esperta mestierante, fu sorpresa da quella mia foga fuori dal comune. Ma del resto, quel giorno, nulla sarebbe stato ordinario.
Poco prima di venire mi staccai. Contro ogni buona regola, non avevo messo il preservativo. Ma la voglia era così tanta che si sarebbe potuta fottere pure la sifilide!
La feci sdraiare sul letto. Le sue gote erano arrossate e accaldate, per lo sforzo, per il piacere, per l'orgasmo raggiunto. Mi inginocchiai fra le sue gambe. Dio, non scorderò mai la luce dei suoi occhi in quel momento. Lidia era appagata, frastornata, eccitata, divertita, lusingata. Lidia era semplicemente la ragazza più bella che avessi mai visto. E faceva la battona nella casa di Madame!
La sua professionalità però non venne meno nemmeno in quella circostanza. "Ricordati il preservativo, Giorgino. Abbiamo già rischiato prima, non vorrai mica farmi un bel regalino proprio quest'ultimo giorno, eh?". Scoppiammo a ridere insieme. Sembavamo proprio una gran bella coppietta, di quelle che vanno al cinema il sabato sera o si fermano a un tavolino di un bar a bere gazzosa e chinotto, felici contenti e innamorati.
Non persi tempo e, come sospinto da un urgenza incontrollata, affondai in lei scopandola con colpi vibranti. A ogni affondo i nostri ansimi divenivano sempre più prepotenti, sempre più indemoniati. Le stringevo il culo con una mano, mentre con l'altra, fra i suoi capelli, mi aiutavo nelle spinte. Era come se volessi entrare per sempre in lei, lei che era la mia puttana, lei che era stata la mia prima donna.
Il tempo divenne superfluo. Non v'erano più secondi, minuti, mezz'ore, ore. Semplicemente il ticchettio dell'orologio ormai non aveva alcun senso. Fottevo per dimenticare. Scopavo per ricordare. Chiavavo per non piangere. Non sapevo cosa fosse l'amore, ma ciò che provai per la Lidia, in quegli istanti, con quel nome lo chiamai.
Venni, venni copiosamente, venni urlando in un grido roco, carico di desiderio, di appagamento, di disperazione. E lei venne insieme a me. Un orgasmo pieno di nostalgia, colmo di piacere. Con i corpi sudati ci sdraiammo l'uno di fianco all'altra, a fissare il soffitto, silenziosi, pensierosi.
"Cosa farai da domani?" chiesi frantumando quel silenzio così rumoroso. Lidia sospirò. "Non lo so ancora. Ho avuto mesi per pensarci, ma alla fine ancora non so". Si voltò a fissarmi, sorridendomi con tenerezza.
"Un mio cliente mi ha proposto di andare a lavorare in una filanda del suo paese. Dalle parti di Legnano, se non ricordo male. E di tanto in tanto mi verrebbe a trovare pagandomi per il disturbo" mi disse ridendo tristemente. "Sì, insomma, continuerei a fare la puttana clandestina, mentre di giorno mi spaccherei la schiena in officina. Magari troverei anche un moroso, che tanto da quelle parti mica sanno il lavoro che ho fatto".
"Ti sposo io, Lidietta. Mi prenderò cura io di te". Parlai di slancio, con veemenza, sull'onda del momento. Scoppiò a ridere accarezzandomi il volto glabro. Anche lei sapeva che era una stronzata, gettata lì figlia della scopata appena conclusa. I miei vent'anni non mi rendevano credibile e, a distanza di tempo, devo dire che aveva ragione. Non l'avrei mai sposata una puttana che quelle cose, al mio paese, non si facevano mica. Va bene chiavarsi una troia, ma portarsela in casa mai!
E così terminò quell'ultima mezz'ora con la mia Lidia. Il tempo era tiranno e gli affari erano sempre affari. Mi ritrovai presto in strada, ancora intriso dell'odore della sua fica e una tristezza che non voleva sapere di andarsene.
Con quel poco che mi era rimasto in tasca riuscii a farmi altri due bordelli. Roba spiccia, roba di poco conto, un ultimo saluto a un'era che si chiudeva. E difatti, a mezzanotte, calò il sipario sulla Lidia e le altre, su di me e noi altri.
Da un ambulante comprai un bicchiere di barbera e rimasi lì, in quell'angusto vicoletto di Brera, a osservare le luci dei portoni delle varie case spegnersi definitivamente. D'improvviso mi accorsi che di fianco a me c'era il Renato, mio compaesano. Aveva quasi le lacrime agli occhi. Gli offrii quel che rimaneva del mio bicchiere.
Poi, senza che alcuna parola fu scambiata fra noi, scoppiammo a ridere, come folli, come imbecilli. "Puttane addio" iniziò a gridare Renato. Subito lo imitai. Puttane addio, puttane addio, puttane addio, gridavamo correndo lungo la strada, salutando tutti i bordelli che in quegli anni ci avevano ospitato. Puttane addio! E come di rimando, molte si affacciavano dalle finestre delle loro stanze, chi salutandoci, chi sfottendoci, chi maledicendoci, chi ridendo, chi piangendo, chi solo per guardarci. Puttane addio!

Socchiuse nuovamente gli occhi, assaporando quegli istanti di dolci e tristi ricordi. Con gesto istintivo gli posai la mano sulla sua, in un tocco carico di tenerezza. Chinò il capo in avanti. Le sue folte ciglia candide di vecchiaia tremarono nel tentativo di fermare le lacrime.
Finii d'un solo fiato quel che rimaneva della mia birra. Mi alzai e me ne andai, lasciandolo solo con i suoi ricordi, i suoi sogni, la sua Lidietta. Era giusto così, in fondo.
Appena uscito dal bar mi accesi una sigaretta e mi incamminai verso casa. Scoppiai a ridere. Avevo davanti ai miei occhi l'immagine di due ragazzi nel pieno della loro esuberanza, che gridavano al cielo la fine di un'epoca.
Puttane addio!

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