lunedì 10 novembre 2014

REALTA' VIRTUALE di Andrea Lagrein




Bussarono alla porta. Alle sette di sera non aspettavo certamente qualcuno. Fui quasi tentato di non andare ad aprire. L'insistenza del misterioso ospite era al limite della maleducazione. "Dai, lo so che sei in casa. Aprimi, cazzo".
Sorrisi divertito. Quella era Marta, la ragazzina quattordicenne che abitava sopra di me. A quel tempo abitavo in zona via Padova, ultimo rifugio dopo l'ennesimo sfratto. La casa non era granché, ma tutto sommato era migliore di tutti i tuguri dove fino allora mi ero trascinato. Almeno non c'erano battone e travestiti, ma un'onesta umanità che si faceva il culo da mattina a sera per arrivare a fine mese senza eccessivi affanni. Insomma, una parvenza di normalità.
Andai ad aprire e lei entrò senza nemmeno salutare, con il volto corrucciato, gettandosi letteralmente sulla poltrona che avevo in sala. Immediatamente iniziò a scrivere come una furia sull'iPhone che teneva in mano.
"Problemi?" chiesi una volta messomi di fronte. Lei nemmeno mi guardò. "Dammi una birra, che ne ho tremendamente bisogno". Feci come mi chiese. Non ero suo padre e non spettava a me farle la paternale se dovesse o meno bere alcolici alla sua età.
"Quindi?" domandai nuovamente. Per un breve istante sollevò gli occhi dalla tastiera. "Quella stronza di mia madre è ancora in ritardo. E io son chiusa fuori di casa". Ritornò immediatamente a concentrarsi sul display del telefono.
Mi aprii una birra anch'io. Infondo non erano problemi che mi riguardassero. "Ma tu guarda sto figlio di puttana" esclamò d'improvviso. Non dissi nulla, volevo che fosse lei a parlare. Mi guardò con occhi pieni di lacrime. Mi passò il telefono affinché anch'io potessi capire.
Vi era una foto di lei, ben riconoscibile, mentre prendeva in bocca un grosso uccello. Era del tutto inequivocabile. Le riconsegnai l'apparecchio. "Dicasi pompino". Stavo cercando di sdrammatizzare, anche se da sorridere c'era ben poco.
"Già, lo so bene cos'è. Nel caso non te ne fossi accorto, sono io quella che sta spompinando" rispose decisamente irata. Sollevai le spalle con fare indifferente. "E dunque?" domandai iniziando a essere infastidito dal suo atteggiamento.
Lei se ne accorse e abbassò lo sguardo. La sua fasulla scorza da dura crollò all'istante. Scoppiò in un pianto dirotto. Era scossa dai singulti e tutta la sua disperazione si sciolse in quelle lacrime. Mi avvicinai, mi sedetti al suo fianco e l'abbracciai, senza dir nulla, ma rimanendo così, l'uno stretto all'altra.
"E' stato quel bastardo a postare la foto" disse infine con un filo di voce. La guardai senza capire, domandando silenziosamente una spiegazione con gli occhi. "Ivan, il mio ex. Ci siamo lasciati da più di due settimane. Doveva essere uno scherzo fra noi due, un gioco cretino che al momento mi sembrava innocuo. Eravamo a casa sua e lui ha voluto fare quella foto. Pensavo che mi amasse, pensavo fosse il ragazzo della mia vita. E invece due settimane fa mi ha piantata per un'altra puttanella del quartiere. Mi ha detto che le piaceva di più, che le faceva più sangue, che non era capace di resistere al suo corpo e voleva scoparsela. Che voleva starci insieme. E io come una cogliona a piangere la notte per lui. Per lui, capisci?".
In realtà non capivo, ma non glielo dissi. Non capivo come a quattordici anni si potesse pensare che il mondo finisse solo perché un ragazzino l'aveva scaricata. Non capivo come a quattordici anni si potessero far pompini come una trentenne consumata. Non capivo soprattutto come una stupida fotografia potesse sconvolgere così tanto la mente di una persona. Forse, a quarant'anni, avevo ormai addosso la polvere di una generazione passata.
"Non ti preoccupare, piccola" tentai di consolarla. "Credimi, la vita va avanti, ne troverai tanti altri di Ivan, e una foto la si dimentica in fretta. Fidati, fra qualche settimana non te ne ricorderai nemmeno più".
Lei mi fissò come si guarda uno stupido. "Tu credi? Quella foto è e sarà la mia rovina. Quella foto mi perseguiterà per sempre. Tieni, guarda, leggi i commenti che circolano sui social".
Mi passò il telefono. Iniziai a leggere, sempre più disgustato. Ciao bella pompinara, quando passi da me?; la succhia cazzi di via Padova; sei una vera maiala, ti voglio incontrare; che labbra infuocate che ha sta bimba; sei una troia, gira alla larga dal mio ragazzo; ciao bel vaccone, se non me la dai ti sputtano in tutta la scuola; ma non ti vergogni a essere così zoccola?; ciao, ho voglia di sborrarti in bocca, quando ci incontriamo?
Le ripassai l'iPhone. Avevo letto a sufficienza per i miei gusti, e non è che i miei gusti fossero proprio sofisticati. Il branco sapeva essere davvero crudele con chi mostrava le proprie debolezze o i propri errori. Nessuna pietà, nessun rimorso, nessun riscatto.
"Capisci ora cosa intendo?" mi domandò singhiozzando. "Io ormai sono diventata la pompinara di via Padova. E tutti questi, che manco conosco, continueranno a perseguitarmi, dandomi della puttana e della poco di buono".
Le accarezzai i capelli in un gesto affettuoso. "Lasciali perdere, tesoro. Sono delle merde che fanno i bulli solo perché dietro a uno schermo. Non dargli peso, esci e vivi nella vita reale, che ste cazzate sono solo virtuali. L'hai detto tu stessa, manco li conosci sti stronzi". Marta scosse il capo, come se io non volessi, o riuscissi a capire ciò che lei intendeva.
"Forse per te sarà realtà virtuale, tu che ormai hai già la tua età e non usi queste cose. Ma per noi, questa è la realtà. E se ti sputtanano lì dentro, sei proprio fottuto, amico". Si stava lentamente calmando, ma la sua tristezza era infinita. La tristezza di chi non aveva più un futuro. A quattordici anni!
I rumori al piano di sopra ci fecero capire che i suoi erano tornati a casa. "Vado, adesso. Grazie per la birra Andrea". Si diresse veloce verso la porta, quasi che si vergognasse di ciò che mi aveva appena raccontato. Non sapevo cosa dirle, sicché la salutai unicamente con un gesto della mano.
Un paio di giorni dopo incontrai accidentalmente sua madre lungo le scale. "Come sta Marta?" chiesi. La donna mi guardò confusa, non capendo il motivo di quella domanda. Gesù, quella donna era all'oscuro di tutto l'inferno che stava attraversando suo figlia.
"Perché mi fa questa domanda? Marta sta bene, non si preoccupi". Mi fissava come fossi un turpe violentatore di ragazzine. Sospirai. "Non mi sembrava l'ultima volta che ci siamo visti. Anzi, mi pareva alquanto sconvolta". Quella donna, con quel suo atteggiamento, iniziava a darmi sui nervi, nonostante l'avessi incontrata solo un paio di volte.
"Senta, signor so tutto io, Marta ha dei genitori che si preoccupano per lei. Se le ha fatto qualcosa, me lo dica immediatamente, altrimenti si faccia gli affari suoi. Intesi?". La mia voglia di pigliarla a calci nel culo cresceva di momento in momento.
"Si vede come vi preoccupate per lei. Vi preoccupate così tanto che non sapete un cazzo di quel che sta passando quella povera ragazza". La donna, evidentemente colpita nel suo orgoglio di madre, mi fulminò con gli occhi.
"Mi ascolti un pò, bellimbusto. Lei non ha figli, passa le giornate non so in che modo, ogni sera rimorchia donne sempre diverse, e alcune per me sono pure battone da marciapiede, beve come una spugna, e osa venire a fare la predica a me? A me che mi spacco la schiena ogni santo giorno per mandare avanti la casa? Mi faccia il favore, giri alla larga da mia figlia e pensi agli affari suoi, intesi?".
Non aspettò nemmeno la mia risposta. Si voltò e se ne andò. Rimasi lì come un ebete, incapace di fare o dire qualsiasi cosa. Alla fine rientrai a casa.
Dopo due settimane circa, mi ritrovai su quella stessa poltrona dove Marta mi aveva mostrato quella foto e quegli orribili commenti. Accarezzavo il bracciolo mentre bevevo una birra, e mi pareva proprio che fosse ancora umido dalle sue lacrime. O forse erano le mie!
Mi avevano appena dato la notizia. Non volevo crederci. Eppure quel che era accaduto non era virtuale, ma reale, tremendamente reale. Continuavo a ripensare a Marta, ai suoi quattordici anni, al suo mondo, ai suoi problemi. Il branco ha le sue regole, è spietato, non guarda in faccia a nessuno. Tutti dietro a uno schermo, tutti a pensare che sia solo un gioco.
La pompinara di via Padova! A quattordici anni si è semplicemente ancora troppo piccoli per affrontare certi problemi. A quattordici anni si dovrebbe sognare, non far pompini. A quattordici anni si dovrebbe correre felici in contro alla vita, non ubriacarsi per sfuggire alla merda che ci circonda. A quattordici anni si dovrebbe arrossire per uno sguardo, non farsi sbattere nel cesso di una discoteca dal primo bullo di passaggio. A quattordici anni si dovrebbe vivere, non morire.
Marta si era rifugiata nella sua realtà virtuale e da esse ne era stata distrutta. Una fuga da una realtà che, a quattordici anni, era già divenuta insostenibile. Una fuga che non la portò da nessuna parte.
Ero lì, seduto sulla mia poltrona, con una birra in mano e con la notizia che mi avevano appena dato. Marta si era tolta la vita!

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