mercoledì 11 giugno 2014

ANNEGARE PER DIMENTICARE (acquerelli di vita reale)

La luce dei lampioni illuminava il viale che stavo percorrendo per tornare a casa. Erano le undici di sera e non vi era quasi nessuno in quella fredda serata d'inverno appena iniziato. Guidavo lentamente, senza fretta alcuna, disgustato dalla solita nauseante giornata lavorativa. Ne avevo la palle piene! Che schifo, che schifo, che schifo. Pieno di sconforto, osservavo con l'anima gonfia di malinconia la periferia urbana che scorreva ai miei lati. Provavo schifo per tutto. Per un lavoro che odiavo, per una solitudine che mi pesava, per una vita improvvisamente deragliata, per un domani che non vedevo, per un oggi che sentivo sterile ed inutile. Provavo schifo per me stesso. Un fallito con un passato indimenticabile, un presente intollerabile, un futuro inimmaginabile. E ogni giorno che passava sprofondavo sempre più. 
Fuggivo! Quel che sapevo fare, e lo facevo bene, era semplicemente fuggire, appena possibile, da tutto e da tutti. Una sbronza, una scopata, un sogno a occhi aperti, un libro in cui dimenticare me stesso e chiudere il mondo reale fuori dalla porta del proprio cuore. Ecco quel che facevo e, se avessi potuto, sarei fuggito anche da me stesso. Ma scappare da se stessi è impossibile, sicché mettevo in fila un giorno dopo l'altro senza nessuno scopo, con l'unico intento di non impazzire. 
A questo stavo pensando quella fredda sera d'inverno appena iniziato, mentre percorrevo un viale di periferia per tornare a casa. E a un angolo, immobile a un distributore di benzina, la vidi. 
Il corto piumino bianco risaltava nell'oscurità della notte, illuminato dal neon dei prezzi dei carburanti che campeggiava poco distante. I suoi lunghi e lisci capelli corvini spuntavano da un cappellino di lana, anche quello bianco, come candidi erano i guanti che indossava. La piccola borsa portata al braccio, invece, era nera come quella sera di miei turpi pensieri. La corta minigonna di jeans metteva in mostra le gambe cinte da una pesante calzamaglia. Gli stivali di pelle lucida, che arrivavano ben oltre il ginocchio, completavano la sua mise da puttana di periferia. 
Rallentando le passai accanto, cercando di scrutare il suo volto. Mi parve quasi che mi sorridesse, in una sorta di veloce adescamento. Non so se fu solo frutto della mia immaginazione, ma il viso che scorsi mi sembrò proprio di una bellezza sconvolgente. Il desiderio sorse improvviso e prepotente. 
Ero combattuto, indeciso se tornare a casa e mettermi a letto o sprofondare nella fica di una troia da marciapiede. Ma quella sera era sera da biechi pensieri. Quella sera mi piegai alle mie turpi voglie. Cedetti alla voglia di lascivia che latente aleggiava nel mio io più silente. Annegare per dimenticare! 
Svoltai al primo incrocio e tornai indietro. Mi fermai dove lei era ancora lì, quasi mi stesse attendendo. Abbassai il finestrino. Lei mi sorrise. Le chiesi quanto volesse. Lei mi rispose e io la invitai a salire. Non era poi così bella come avevo creduto. L'immaginazione mi aveva fatto vedere ciò che in realtà non era. Era comunque una ragazza carina, con tutte le sue piccole imperfezioni. Per una frazione di secondo mi pentii di quel che avevo fatto. Ma poi tutto si dissolse quando lei iniziò a spiegarmi dove andare per consumare il nostro laido commercio. Ogni remora scomparve quando lei appoggiò la sua mano sulla mia coscia, in un gesto quasi tenero. 
Ci appartammo in un anfratto oscuro appena dietro la stazione di servizio. Alla destra si ergeva un alto muro scrostato che serviva a delimitare un campo incolto. Alla sinistra vi era il retro dell'officina del distributore di benzina. Spensi i fari, arrestai l'auto e il buio della notte ci avvolse con il suo freddo alito invernale. Solo una pallida luna e le luci in lontananza mi aiutavano ad intuire, più che a vedere, contorni e profili. 
Mi chiese i soldi in anticipo e, mentre glieli stavo consegnando, iniziò in modo sbrigativo a spogliarsi. Poi, d'improvviso, si fermò e mi guardò. Quasi seccata mi fece un cenno con la testa verso le mie gambe e, con tono spazientito, mi disse di togliermi i pantaloni. Io obbedii diligente e al contempo lei cominciò a reclinare il sedile su cui era seduta. Si era tolta la giacca che, insieme alla borsa, lanciò sui sedili posteriori. Mise i soldi nello stivale, quindi si sfilò il maglione, sollevò la maglietta e si slacciò il reggiseno. Tette grosse e cadenti, che accesero immediatamente le mie voglie. 
Nessuna parola, nessuna informazione, nessuna conversazione preliminare. Prese un preservativo, si chinò fra le mie gambe e in modo rapido ed esperto prese in bocca tutto il mio uccello. Nonostante lo squallore della situazione, o forse proprio per quello, la mia eccitazione ruggì e si gonfiò rapidamente fra le sue labbra. Le passai una mano sulla schiena, accarezzando la sua pelle ruvida e granulosa. L'altra mano la lasciai scivolare fra i suoi capelli, secchi e rigidi, mentre la sua testa si muoveva velocemente lungo il mio membro. Allungai il braccio fino all'incavo del suo culo, quindi infilai il dito medio nella sua fica. Iniziai a penetrarla cosi', senza tante cerimonie. 
Ben presto l'odore del suo profumo a basso costo misto al puzzo di sudore rappreso dei suoi indumenti si sparse in tutto l'abitacolo, mischiandosi all'inconfondibile afrore di sesso consumato. Questo aroma di lussuria proibita mi diede alla testa, scatenando tutta la mia volubile bestialità. Le sollevai il capo, la feci stendere al suo posto, scivolai dal suo lato e mi inginocchiai fra le sue gambe. 
Lei capii immediatamente. Sollevò la minigonna, aprì il piccolo taglio che sapientemente aveva fatto nella calzamaglia e scostò leggermente gli slip. Io affondai il mio volto fra le sue cosce e iniziai a baciare e leccare con furia. I peli mal rasati graffiavano le mie gote. Il puzzo di fica usata e abusata quasi mi toglieva il respiro. Il tanfo delle calze sintetiche, da troppo tempo negli stivali, letteralmente mi stordiva. La desolazione del paesaggio di periferia attorno a noi incorniciava lo squallore della nostra deriva. Della mia deriva! 
Eppure tutto questo mi eccitava. E così la mia lingua guizzava fra le pieghe della sua femminilità a pagamento. Lei appoggiò una gamba sul cruscotto mentre l'altra, divaricandola, al volante. Infilai le mani sotto il suo culo, molle e flaccido, baciando con foga animalesca la sua vulva umida di saliva. Finché lei mi afferrò la testa, mi sollevò e tacitamente mi invitò a scoparla. Io non mi feci pregare e senza troppi complimenti la penetrai. Ero steso sopra di lei e con avidità consumai quel giro di giostra pagato a buon mercato. 
Il mio viso sprofondò di lato fra i suoi capelli che sapevano di smog, di nebbia, di cibo fritto, di bassifondi inimmaginabili. Tentai di baciarla ma quella era l'unica azione proibita. Troppo intimo, troppo personale per essere comprato su di un marciapiede. Il corpo poteva essere venduto. L'anima e i sentimenti no! 
Con gesto brusco mi allontanò il viso. Mi disse di no, che non si poteva, incitandomi poi a fotterla più velocemente per raggiungere l'orgasmo. Poi voltò il capo e si mise a guardare fuori dal finestrino mentre io la scopavo con furia cieca. Il suo corpo pareva svuotato di ogni linfa vitale, immobile com'era, concesso al mio lubrico piacere per poche banconote. 
I suoi occhi fissavano il muro all'esterno e il suo sguardo volò lontano. Mentre grugnivo e sbuffavo lei con la mente si diresse in un luogo distante migliaia di chilometri da quel sedile di laidi connubi. Per non sentire il peso di un corpo accettato unicamente per danaro, le sue fantasie volavano leggiadre chissà dove, nel tentativo di far svanire quei pochi minuti di orrendo lavoro. Ogni tanto, con tono monocolore e quasi annoiato, mi incitava a compiere il mio dovere. Pareva quasi non udire ciò che lei stessa diceva. 
Quando invece comprese che la mia voglia stava per esplodere, si voltò a guardarmi e con tono sbrigativo e alquanto forzato iniziò a spronarmi con maggior decisione, fingendo anche alcuni ansimi di piacere. Era del tutto evidente che non voleva perdere altro tempo. La sua serata era appena iniziata e non poteva concedersi il lusso di far attendere altri potenziali clienti. 
Venni in un grido roco e strozzato, per poi lasciarmi cadere stremato sul suo corpo immobile. Lei mi sussurrò un bravo di compiacimento, mi accarezzò fugacemente la schiena in un gesto di abitudine, quindi con le mani mi afferrò i fianchi facendomi intendere di spostarmi. Il tempo era scaduto. Di tempo non ce n'era più. 
Veloce si rivestì e io feci altrettanto. Non disse nulla ma si limitò a guardare fuori dal finestrino. Per lei già non esistevo più. La riaccompagnai al suo angolo di disperazione. Con un mezzo sorriso assolutamente fasullo, nel scendere dall'auto, abbozzò fra i denti una saluto che non attese nemmeno la chiusura della portiera. La serata sarebbe stata ancora lunga. 
Ripresi la strada verso casa. Ripresi la strada verso il mio destino. Ripresi la strada verso la mia solitudine. Mi sentivo sporco, sporco nell'anima. E continuai a provare schifo per me stesso!

Nessun commento:

Posta un commento