giovedì 5 giugno 2014

L'ALVEARE di andrea Lagrein




Lì, dove il naviglio pavese supera la tangenziale uscendo dalla città, mentre scivola placido fra campi e paesi verso sud est, s'innalza l'alveare, carico di infinite storie e orrori inenarrabili. Afa e zanzare nelle torride estati. Nebbia e umidità nei freddi inverni. Smog autostradale ogni santo giorno.
Le chiamano le vie dei fiori. Via del biancospino, via dei glicini, via dei garofani, via delle begonie. Ma non vi si trovano profumi e bellezza. No, questo è il regno dell'alveare, case popolari, edilizia convenzionata. Puzza e miseria, mischiati a fatica e criminalità. Noi ragazzi che non eravamo del posto ce la facevamo sotto dalla paura nel solo sentirlo nominare. Quando qualcuno ci diceva che veniva da lì, lo si guardava con un misto di terrore e rispetto, stando comunque ben attenti a come gli si parlava.
Leggende metropolitane, ma non proprio. Chi viveva nell'alveare conosceva fin troppo bene l'asprezza del vivere quotidiano. Pochi soldi da lavori onesti, tanta disoccupazione e misere storie familiari, di quelle che raramente ce se ne occupa, a meno che non ci scappi il morto, e alle volte nemmeno in quelle occasioni.
Frequentavo quei luoghi a vent'anni. Ci viveva Elena, una compagna dell'università, baci infuocati e pompini da favola. La voglia della sua fica era più forte della paura dell'alveare. A tarda sera però, quando uscivo da casa sua, quasi correvo per raggiungere l'auto parcheggiata, guardingo e furtivo con il cuore in gola. Con indosso ancora l'odore dei suoi umori, mi precipitavo verso l'ingresso della tangenziale, cercando di fuggire il più velocemente possibile da quell'inferno che regolarmente richiedeva le sue vittime.
A nessuno infondo frega granché di quel posto. Ce se ne ricorda solo in campagna elettorale, quando qualcuno vuol giocare a fare il duro per strappare qualche voto in più. Ma poi, di Rozzano, rimane traccia solo su qualche articolo di cronaca nera, per lo più locale. Che i ghetti, si sa, è bene tenerli nascosti! Solo qualche prete con le palle ci mette quotidianamente faccia e impegno, loro sì portandosi addosso quella croce in cui tanto credono. Sono eroi silenziosi che non diventeranno mai santi, ma che nel loro piccolo fan grandi miracoli.
Ora, che di anni ne ho quarantuno e venti ne son passati da quelle intrepide scopate, mi ritrovo nuovamente a camminare fra queste vie. Cristo santo! Nulla, ma proprio nulla è cambiato. Gli anziani dalle facce rugose osservano una vita ormai sfuggita, stanchi e sconfitti seduti fuori dai bar. I ragazzini corrono sui loro scooter sfrecciando chissà dove, persi fra lotte di bande rivali. Gli adulti si trascinano senza meta, occhi vuoti curvi sotto incombenze e preoccupazioni. Tutto come vent'anni fa. Anche afa e zanzare!
Accarezzo lentamente una panchina in pietra levigata. Le scritte non lasciano dubbi sulle abilità orali di Marika o sulla fica sempre disponibile di Vanessa. Alfonso addirittura ha lasciato il suo numero di telefono accanto al numero dei centimetri della sua virilità. Spacconerie di chi difficilmente avrà un futuro! Perché difficilmente da qui ne usciranno. Il marchio e la puzza che si portano addosso li seguiranno sempre e ovunque. Ma forse la colpa è loro?
E nel frattempo non riesce a uscirmi dalla testa quella canzone. No guns allowed, di Snoop Lion. Le pistole non sono permesse. Non dovrebbero essere permesse. Eppure qui, nelle vie dei fiori, a un incrocio, c'è un vaso di fiori freschi. Marta aveva solo quattordici anni e tutta la vita davanti. Invece si è trovata nel luogo sbagliato, nel momento sbagliato, con gli amici sbagliati. Non siamo a Hunts Point o Mott Haven giù nel Bronx, eppure anche qui le pistole cantano i loro requiem.
Marta aveva quattordici anni e alle nove di sera stava passeggiando con gli amici fra le vie dell'alveare. Forse avrebbe preso un gelato. Forse avrebbe fumato una sigaretta di nascosto dai genitori. Forse sarebbe andata a fare un giro in motorino. Forse!
Ma poi ci fu quel regolamento di conti fra bande rivali. Uno sgarbo, un qualcosa che non andava fatto, una questione di onore. E un proiettile prese la direzione sbagliata. Anche questo succede qui nell'alveare. Una piccola storia senza senso, che non vale nemmeno la pena riportarla sui quotidiani nazionali. Una piccola storia di vita ordinaria, di follia collettiva, accettata e ben presto messa a tacere.
No guns allowed! Eppure Marta è morta, a quattordici anni, quando aveva ancora tutta la vita davanti a se. Forse sarebbe diventata una puttana. Forse sarebbe morta fra qualche anno strafatta di crack. O forse sarebbe diventata una parrucchiera. O una buona madre di famiglia. O forse si sarebbe laureata. Nessuno lo saprà mai. No guns allowed!
Giunge il tramonto qui nell'alveare. Io sono ancora fra queste strade, in piedi, silenzioso, pensieroso. Le paure di vent'anni fa sono ormai sbiaditi ricordi. Come le case che mi circondano, anch'io mi sento un relitto fallito. Nessuno si avvicinerebbe per derubarmi. Si vede lontano un miglio che non ne varrebbe la pena. La gente mi passa accanto senza nemmeno far caso a me. Gli stessi occhi vuoti, sempre curvi sotto incombenze e preoccupazioni. Come vent'anni fa. E come vent'anni fa, ci sono ancora vasi di fiori freschi all'angolo di una via, monito di un requiem mai terminato.
Afa e zanzare. Nulla è cambiato. No guns allowed!

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