domenica 21 settembre 2014

FUMO TRA LE LABBRA. E' UN FINTO VIVERE QUANDO SI STA MORENDO di Allie Walker




"Sei stata creata per essere la donna perfetta per un uomo. Non puoi essere lo scarto dei capricci di ognuno di loro, molti sono solo impostori. Alla fine sarai solo una dolce e docile preda per loro.” 
Le sue parole riecheggiavano nei sogni di Clio, come sempre. E ogni volta chi le parlava aveva avuto ragione. Come faceva a sapere? Come faceva a capire che sceglieva sempre in modo sbagliato? Lui non era reale. Era solo uno spirito, un demone informe che le appariva nei sogni, nel sonno.
Guardava profondamente in lei. Ed era come se la notte succhiasse dalla sua anima la vita per capirne il senso e il mattino, mentre albeggiava, gliela ritornava, scomparendo dolcemente. Non scomparivano, assieme a lui, le sue parole che, nelle ore di veglia, tornavano a martellarle le tempie. Quelle parole erano sempre con lei.
Una notte, le parlò del suo cuore. Le disse che amava troppo, profondamente, troppo spesso e troppo per quel mondo terreno. Lui la tormentava… le diceva continuamente che poteva vestirsi come le piaceva, mettersi ogni volta una maschera: sottomessa, frivola, un’amante perversa, una femmina affascinante; non sarebbe cambiato il motivo per cui lo faceva. Erano tutti meccanismi per raccogliere l’amore che desiderava, come se fosse stato l’ossigeno che la teneva in vita.
"La ragione per cui desideri così tanto amore da tutti quelli che incontri, è perché nessun amore ti è mai stato vicino a sufficienza. Non disperare. Quello che ti serve è solo attendere. Devi superare la superficialità per trovare l’Amore.”
Clio si svegliò e cercò di sollevare le braccia per toccarlo, le sembrò che fosse lì, con tutto il suo peso, ma non trovò nulla a cui aggrapparsi.
Si sentì cruda e fragile, quel mattino, mentre si vestì rendendosi conto che quel demonio aveva riconosciuto la paura, quella indossava come una seconda pelle. La paura di non essere amata abbastanza, la paura di non sapersi tenere gli uomini, la paura di dover amare troppo e avere nulla in cambio. Aveva cercato di mascherare quella paura nei sorrisi, di giorno, e nei baci che elargiva ai suoi occasionali accompagnatori. Perché dopo aver sofferto per amore, più volte, non cercava più l’uomo della sua vita, ma passava da uno all’altro senza ferirsi.
E intanto cercava di scacciare quel demone con la luce, sperava di liberarsene, bramava poter pensare liberamente e chiudere gli occhi per dormire in maniera serena. Eppure, al buio, quel demone tornò sempre. Era come se chiudendo gli occhi, solo pensando di sognare, o non sognare affatto, lei lo evocasse.
E lui lo sapeva. Sapeva che di notte, lo avrebbe chiamato pur non volendolo, perché in fondo desiderava averlo vicino. Era pur sempre una presenza costante. Il demone vedeva le lacrime silenziose che lei liberava quando era al buio e il cuscino che afferrava tra le braccia, ogni notte, prima di addormentarsi, in quella solitudine terribile che lei proteggeva in maniera feroce.
Lei ascoltava la cadenza del proprio respiro, il ritmo del proprio cuore ed era la sola melodia che le teneva compagnia, Ma era così assordante! Nel sonno si lasciava avvolgere dalle braccia di quell’oscura presenza e ascoltava il sussurro di quelle parole che, di giorno, si rifiutava di comprendere. E continuava ad amare persone sbagliate.
Scrivere era l’unica cosa che non la faceva sentire sola. Macinava pensieri e li traferiva sui fogli di word. Inventava storie, eroine, situazioni che avrebbe voluto vivere, amori impossibili. Sognava. Sognava di continuo, a occhi aperti, rileggendosi.
Quando l’editore la invitò a una presentazione di una collega, si disse che era venuto il momento di uscire allo scoperto. Perché continuare a rifugiarsi dietro uno pseudonimo? Per la paura di essere riconosciuta come la scrittrice di romanzi erotici? Additata perché scriveva “porcherie”?
“Prima che sia troppo tardi, voglio prendermi la soddisfazione di vedere la faccia allibita dei miei concittadini…” rimuginò fra sé. E quella serata poteva essere lo scenario adatto per fare il primo passo verso il pubblico. Era sicura che sarebbero stati presenti anche tanti amici e conoscenti in comune con la collega e amica scrittrice. Inoltre, un evento letterario, nella capitale, di una scrittrice che stava in cima alle vendite nazionali dell’ultimo periodo, era un appuntamento a cui i tanti nomi noti dell’editoria non avrebbero mai rinunciato. Forse si sarebbe presentata l’occasione giusta anche per lei, quella che aveva sempre sognato: diventare una scrittrice famosa.
Si preparò con cura, scegliendo l’abito giusto fra i tanti che aveva nell’armadio. Optò per un abito corto al ginocchio, con le spalline sottili e una scollatura vertiginosa che esaltava lo splendido decolté. Ai piedi un paio di scarpe con il tacco vertiginoso. I capelli raccolti, per il caldo, in uno chignon morbido con qualche ricciolo ribelle che le incorniciava il viso, gli occhi truccati alla perfezione, le labbra dipinte di un rosso rubino. Si specchiò un’ultima volta prima di uscire e si lanciò un bacio, apprezzando la sua immagine riflessa nel grande specchio, che faceva sfoggio di sé, nell’entrata del suo appartamento, tanto quanto la proprietaria. Il caldo umido della sera l’avvolse, ma per poco. Il tragitto che doveva percorrere per arrivare all’auto era breve. Appena salì, infilò la chiave, accese il climatizzatore e poi una sigaretta. Partì rombando verso un destino che lei ancora non conosceva, ma quella serata avrebbe segnato in maniera radicale la sua vita futura.
Arrivò al locale in perfetto orario. L’amica scrittrice salutava tutti con un affabile sorriso, che sembrava avesse stampato in viso. La sala era affollata e, tra i tanti volti sconosciuti, notò alcuni visi di amici. La musica in sottofondo si confondeva con il brusio della gente, un’accoppiata che non riuscì ad apprezzare. Appena l’editore la vide agitò una mano e le corse incontro. Clio si lasciò abbracciare e baciare, ma l’imbarazzo le stava salendo per il corpo in una scia di calore, nonostante l’ambiente fosse climatizzato in maniera eccelsa. Guido, l’editore, la prese per mano e la trascinò verso un capannello di persone. Le presentò alcuni suoi amici e tra questi anche un signore sulla quarantina, particolarmente affascinante: Tiberio. Non era bello, ma i suoi lineamenti erano eleganti e sottolineati da un pizzetto disegnato ad arte. Con un sorriso appena accennato, si chinò appena a prenderle la mano e sfiorarla con un finto bacio.
“Un uomo d’altri tempi…” pensò Clio.
Lo osservò. Era tutto in tiro nel suo abito scuro. Un abito che “sapeva” di sartoria d’alta classe e aveva l’odore del Dio denaro. Lei pensò che fosse eccessivo per un pomeriggio tra editori, scrittori e curiosi. Pensò di snobbarlo, alla stessa maniera che faceva lui ostentando uno status di privilegiato, ma non ci riuscì. Si ritrovò più volte a scrutarlo di sottecchi mentre era intento a parlare con alcune persone. Guido le teneva un braccio sulle spalle e la stringeva a sé in maniera eccessiva. Apprezzò quel gesto perché, così facendo, le donava un senso di protezione in mezzo a tutta quella gente.
Qualcuno parlò da un microfono e tutti si apprestarono a prendere posto sulle sedie. La musica cessò e la presentazione ebbe inizio. Tiberio prese posto accanto a Clio e Guido sulla sedia a fianco. Lei cercò di prestare attenzione a quel che si raccontava, provò a seguire il filo del discorso e le domande che un uomo faceva all’amica scrittrice, ma si sentì gli occhi di Tiberio addosso. Per tutto il tempo. Si perse. Fantasticò di essere tra le sue mani, di essere vicino alla sua pelle a inspirare il suo odore. Se le sentiva sul corpo quelle mani e il profumo di colonia che le arrivava alle narici la distraeva in maniera incredibile. Fino a che tutto finì - le sembrò che tutto si fosse svolto in pochissimi minuti - e gli applausi la colsero impreparata.
Tutti si alzarono in piedi e lei rimase immobile sulla sedia ancora immersa in fantasie carnali. Tiberio le sfiorò un braccio e lei rabbrividì, poi alzò gli occhi a guardarlo e lui le sorrise. A quel punto si alzò e l’uomo, un po’ più alto di lei, si chinò verso Clio e le sussurrò all’orecchio: “Sei mia ospite a cena…”
E sorrise di nuovo, lui, questa volta con un’espressione sorniona, di quelle bastarde. Quell’espressione che parlava senza dire nulla, che diceva “non aspetti altro che io ti scopi”. Quella fu l’impressione di Clio e un brivido le percorse la schiena.
Cominciò in quella maniera la relazione tra Tiberio e Clio. Dopo la cena lei accettò di finire la serata in una camera d’albergo. Era consapevole che la loro relazione sarebbe durata poco, l’anello all’anulare sinistro di lui la diceva lunga. Sarebbe stata una scopata, una notte di sesso e forse ne sarebbero seguite altre. Ma più di quello Clio non poteva e doveva pretendere e andò in quell’albergo perché lo desiderava. Quello che Clio non si aspettava, era che si sarebbe innamorata follemente di quell’uomo.
E ogni volta che si incontravano era lussuria allo stato puro. Le dita di lui correvano lungo la schiena di lei, anticipando la scia delle labbra e della lingua. Non servivano parole e nessuno dei due intendeva riempire il silenzio. Parlava molto di più di tante parole, il silenzio, le mani di lui si stringevano sui polsi di lei e, quando si addolciva, era protettivo, la accarezzava svegliando un fuoco che premeva sottopelle e scorreva assieme al sangue nelle vene. Infine, quando tutto era finito, quando entrambi aveva soddisfatto la loro arsura e le loro voglie, i muscoli della schiena di Clio si rilassavano contro il petto di Tiberio, mentre in sottofondo andava la musica del piano bar sotto casa. E poi lui se ne andava e lei, lentamente, si alzava dal letto e, ancora con l’odore di sesso addosso, si sedeva alla scrivania e vomitava pensieri, lasciando il cuore in sospeso.
A volte le chiedeva di accompagnarlo ad alcuni eventi mondani e Clio si chiedeva perché portasse lei e non sua moglie. Ma si guardava bene dal chiederlo a lui, le bastava essere insieme e in qualche momento si sentiva in colpa nel prendere un posto che non era suo. E si ripeteva, forse per convincersene in maniera radicale, che se andava bene a lui e, di conseguenza, anche a sua moglie sarebbe dovuto andare bene anche a lei. E la moglie non era nemmeno inconsapevole visto che apparivano spesso su alcune riviste di gossip e scandalistiche.
Una di quelle sere rimasero a cena in un noto ristorante romano, frequentato da tanti volti noti della movida capitolina, e in molti andarono a salutare Tiberio. In quei momenti Clio si isolava, appoggiandosi allo schienale della sedia, girando il capo a guardare tutti e tutto tranne le persone che si erano avvicinate al loro tavolo.
Ci fu un momento in cui nessun occhio o orecchio indiscreto era puntato su di loro e lei osservò curiosa Tiberio. Lui cercò nelle tasche della giacca e pochi istanti dopo appoggiò un suo biglietto da visita sul tavolo, sfilò la penna dal taschino e disegnò un cerchio perfetto sul lato bianco del biglietto. Al centro disegnò un piccolo punto. Clio lo guardava confusa. Lui rimarcò il cerchio e poi ritoccò il punto al centro.
“Lo vedi questo cerchio?” le chiese. Clio non rispose, alzò solo un istante gli occhi a guardarlo.
Lui riprese: “Io sono il cerchio!” e tornò a rimarcare con la penna il punto centrale. “Tu sei il centro. Puoi sentirti sola a volte. Stai pensando che tra me e te ci sia uno spazio enorme, e tu ti senti troppo piccola per colmare il divario che intravedi... Beh, lo vedi solo tu. Se rifletti bene e ti metti in testa che io sono il cerchio, quello spazio che vedi è la mia anima che ti circonda e protegge… io ti racchiudo. Non vai da nessuna parte se io non ci sono. Non devi aver paura di arrenderti a questo mio esserci sempre, anche quando non sono con te fisicamente. Questa sera siamo insieme e sto attendendo che tu distenda le braccia e mi accarezzi. E lo so. Io lo so. Tu sei in attesa di sentire il mio respiro su di te. Ma permettimi di viverti in mezzo alla gente che mi conosce.”
“Ma tua mo…” non la fece finire di parlare. La zittì scrollando il capo.
Tiberio riprese in mano la penna e in giri concentrici riempì il divario tra il cerchio iniziale e quel puntino che la rappresentava. Premette la penna più volte in quel punto. Clio non si sentì più così piccola e ricacciò tra i pensieri, seppellendoli con un sospiro, la famiglia di lui.
***
Una pomeriggio, mente erano ancora a letto, lui si mise a parlare. Fu un monologo che Clio ascoltò con attenzione, una cosa del tutto nuova per lui che parlava molto poco. O meglio… parlava, ma non quando erano a letto. Era un uomo colto, un produttore. Un ricco produttore ammogliato ma perverso. Un uomo che poteva avere tutte le donne che voleva, le bastava schioccare le dita. Ma adesso voleva lei. Ed era con lei. E questo le bastava.
“Sai… io sono un produttore di amore, degusto le donne.” Le disse. “Gusto te. Il cazzo è per il porno, è un esercizio fisico che da soddisfazioni fisiche: i muscoli si irrigidiscono, il cuore sbatte, i corpi sudano.” S’interruppe per guardarla, per vedere se lei stesse seguendo quel discorso. Sorrise e proseguì: “Io non scopo. Scrivo poesie sulla pelle con la punta delle dita. Lascio canzoni sul seno con le labbra. Disegno quadri con la bellezza dei gemiti che fuoriescono dalle tue labbra. Non sono semplicemente un cazzo e tu meriti molto di più di un desiderio sessuale impaziente. La mia è un’arte disperata.” Fece ancora una pausa. Si umettò le labbra, le baciò la fronte e poi gli occhi e si fermò a leccarle le labbra. E sulle labbra, soffermandosi per qualche istante a ogni parola, le sussurrò: ”Sì, è un’arte potente, cruda, diretta, appagante, mozzafiato; ma io non scopo. Trovo, invece, quelle parti di te… quelle parti che hai dimenticato essere così belle e le conficco nei tuoi ricordi.”
Si avvinghiarono l’uno all’altra, scoparono ancora e ancora. E a Clio sembrò di toccare il paradiso mentre pronunciò quel “ti amo”. Tiberio si bloccò un istante, la guardò ma non disse nulla e ricominciò ad affondare colpi dentro di lei, fino ad arrivare all’orgasmo, senza aspettarla, in maniera rude. Azione contraddittoria con quello che aveva poco prima espresso. Poi lui si rivestì in fretta e come tutte le altre volte se ne andò.
Quella notte, si vestì anche Clio e uscì di casa. Un sabato sera qualunque, ma tante persone in giro. Camminò in mezzo alla gente alla ricerca di qualcosa, ma non sapeva cosa. Avrebbe voluto che lì fuori ci fosse lui, Tiberio. E pensando a lui, che sicuramente era nella sua casa assieme a sua moglie e ai suoi figli, capì che non sarebbe mai stato totalmente suo.
Si mise alla ricerca di qualcuno che potesse sostituirlo, quella stessa sera. Aveva un bisogno urgente di braccia, di una presenza carnale, di occhi che l’apprezzassero per quello che era e di una bocca che pronunciasse la parola “amore”. Stava rasentando la follia, ma aveva le sue ragioni. Guardò la gente che le passava vicino. Avrebbe voluto un uomo che potesse tenerle compagnia la notte, in modo che quel demone, che da un po’ non tormentava le sue notti, non fosse tornato. Un uomo che si fosse svegliato assieme a lei al mattino, così da far vedere a quel demone bastardo che lei sapeva amare e non aveva paura dell’amore. Nessuno la degnò di uno sguardo.
Aspettò, poi, in mezzo alla strada affollata e guardò quel dipinto di viola e blu che la sovrastava. Sembrava tenero quel cielo minaccioso in confronto alle parole che le risuonavano in testa e le apparivano liquide. Era come se incombesse su di lei un fiume in piena, che presto avrebbe tracimato, e sentì sottopelle la paura scorrere assieme al sangue nelle vene. E afferrò il senso di un’altra notte in compagnia del suo compagno oscuro.
***
Quando arrivava Tiberio Clio doveva lasciar perdere tutto quello che stava facendo e prestargli attenzione. Lui voleva così.
Una delle tante volte che piombò a casa sua, lei non si unì a lui subito, si scusò dicendo che doveva andare in cucina a bere. Quando entrò in camera da letto lui era disteso sopra le lenzuola, senza nulla addosso. Clio non gli andò vicino, ma si sedette su una poltrona e rimase a guardarlo come se fosse un dio.
Tiberio stava con le gambe rilassate e giocava a provocarla, accarezzandosi. Clio respirava a fatica, come se lui le rubasse il respiro anche a distanza, la confondeva. Sentì il cuore in gola e il desiderio di toccarlo si amplificò momento per momento. Si impose si rimanere immobile, ma il tremore delle mani tradirono il suo sentire, deglutì la saliva, che le aveva riempito la bocca, mordendosi le labbra.
Era dentro di lei, la penetrava non solo con il corpo, ma anche con le parole non dette, con quelle mani che si muovevano sulla carne tesa, con quel suo sguardo irritante. Ubriaca di lui che non avrebbe dovuto amare.
Eppure era lì a guardarlo, e lui era lì a toccarsi e tutto nell’aria era sesso, non amore. Sul volto di lei la sconfitta di chi sa che non può chiedere di più. E rimuginava pensieri che poi avrebbe scritto quando lui se ne sarebbe andato.
Tentava di comprendere perché voleva proprio lei. Che cosa trovava in lei? Che cosa lo spingeva verso di lei?. Clio sapeva che lui non l’amava, ma non poteva ignorare quel torrente che ribolliva e la sciarada di parole in testa che le dicevano che lui la voleva. Sempre. Temeva il giorno in cui non sarebbe più stato così e, in quei momenti rubati agli altri, alla famiglia di lui, Clio usava le armi che aveva in mano.
Porgeva a Tiberio piccole dosi di sé, quel tanto che bastava a far vacillare quel freddo atteggiamento che gli si disegnava in viso ogni volta che voleva fare il duro. E lo faceva ogni volta in maniera diversa, lui odiava la monotonia dei gesti e Clio, in quel senso, lo assecondava in ogni cosa, in ogni gesto, in ogni richiesta. In quel momento lui continuò a guardarla maneggiandosi il cazzo. Sapeva che Clio lo voleva e a lui si leggeva in volto la smania di avere le mani di lei sull’asta, piuttosto che le proprie. Invece Clio si aggiustò meglio in poltrona, le gambe accavallate e le mani sui braccioli. Si obbligò a rimanere immobile a guardarlo, in una guerra di sguardi. Tiberio non amava essere sfidato, soprattutto da lei. E adesso era sul viso di lui che si leggeva la confusione.
Lei rimuginò pensieri: “Non sai quello che mi passa in testa e questo ti spiazza. Non sai che ti sto usando e quando sarò sola userò quello che ho visto per scrivere. Non sai di essere la mia musa. Sì, ti amo. Sì, ti uso. E ancora sì… mi usi per il tuo piacere, quello che non trovi tra le mura di casa tua.”
Tiberio alzò il busto dal letto e si sedette ma, prima di fare altri movimenti e alzarsi per raggiungerla, Clio aprì le gambe e iniziò a toccarsi. Lui si bloccò a guardarla, un sorriso sornione gli si stampò in volto.
Clio finalmente parlò: “Mi piace esibirmi, mostrarti quanto mi fai diventare troia…”
E solo con i pensieri proseguì: “Ma sei tu che vuoi prendere completamente possesso di me? O sono io a possederti? Vuoi che mi inginocchi ai tuoi piedi e implori il tuo possesso? O sei tu che adesso vorresti farlo? Potrei darti l’eternità, ma cosa avrò in cambio? Avrò te come tu hai me?” Domande che Clio aveva stampate in mente da tempo, domande sempre senza risposta.
Lui si avvicinò e sostituì le mani di lei con la bocca e la lingua.
Quando se ne andò, all’imbrunire, lei finì di scrivergli una lettera che lui non avrebbe mai letto, ben nascosta in un file del pc.
La lettera terminava con: “Sì, sono tua, tra il peccato e l’amore, estasiata da questa storia che insisto a tenere in piedi. E’ un racconto che mi costringo a vivere. Una vita con più domande che risposte, un mondo che provoca sofferenza ed estasi. Non temo il bruciarmi, solo non comprendo perché non possa diventare tutto più semplice. Mi vuoi, ma non puoi sempre. Mi vuoi, ma quando hai finito te ne vai. Mi vuoi, ma sono solo una bambola da mostrare. Perché questo amore deve essere risucchiato in un vortice di paradossi? Forse avrò il coraggio di fare qualcosa per liberarmi di te. O forse sarai tu che ti libererai di me. Rimane il fatto che ti amo e non posso averti. Forse abbracciando l’eternità sarai completamente mio. Mio e di nessun altra. E’ morboso questo amore che provo per te e so che mi porterà alla distruzione. Ma almeno non distruggerò te. Tua per sempre. Clio.”

E Clio bevve di quell’amore fino a dissetarsi, mangiando le parole e i gesti di Tiberio con una passione ricambiata, con un desiderio che era simile al suo, con il fuoco della sua mente, in continui orgasmi di pensieri che versava in inchiostro sulle pagine sparse per casa o nei file del pc.
Alle volte cantarono su diverse armonie, ma la musica ha immense possibilità e in tanti momenti divennero una sola melodia. Clio credette di essere pronta, sperò, lambì i confini di quello che lui le chiedeva, senza lesinare. Sapeva di non essere amata, di essere solo un desiderio carnale, un oggetto da mostrare, ma ricacciava indietro tutto i pensieri oscuri quando era con lui.
Si rifiutò, infine, di vedere quello che era vero, la realtà, quello che i pensieri più volatili tracciavano senza preavviso e ricacciava dentro a forza, quello che anche un cieco avrebbe letto nel loro rapporto, mentre lei, resa impotente dall'amore che provava per lui, attendeva i suoi momenti.
Lei ascoltò attentamente il crepitio del fuoco che divampava ogni volta tra loro, vacillò nella polvere della cenere che ne rimaneva fino a mostrargli tutto quello che era. Sperava potessero bruciare più a lungo, pensava di poter gestire le fiamme e tenerle vive.
Ma il fuoco, si sa, è affamato e insaziabile, consuma tutto quello che brucia. E lui? Lui non era solo calore e Clio ebbe paura che nulla avrebbe potuto mai saziarlo. E il suo risveglio, il suo fuoco, la sua luce che non furono più di Clio ma di un’altra.
Clio non amava mostrare segni di intolleranza, i bordi oscuri di un esaurimento. Si ritrovò immersa in una fitta nebbia che lentamente evaporava dal ghiaccio che aveva avvolto la sua anima, dopo che lui le disse che era finita.
Non lo rivide più e non tentò nemmeno di chiamarlo al telefono. Si disse che aveva una cura per il proprio mal d’amore, ma forse non era ancora pronta a guarire, preferiva tenersi il gelo a corazzare il cuore.
Ripensò più volte alle parole di Tiberio, a quel “mi dispiace” detto senza guardarla negli occhi. E in fin dei conti lei lo capiva. Lui aveva la sua vita, l’altra vita. E ora c’era anche l’altra. E chissà quante altre l’avevano preceduta e quante altre ce ne sarebbero state. Un numero. Questo era diventata per lui. Un numero e un giocattolo che non gli serviva più, perché sostituito con uno più divertente.
Clio arrivò al punto di uscire di casa solo per fare la spesa e in ogni angolo della sua casa aveva appiccicato un post it con la stessa scritta, identica per ognuno di essi: “perché hai rubato il mio respiro e non me lo dai indietro?”
E in qualche maniera era arrivata anche a godersi la solitudine, con il freddo e oscuro demone che la possedeva, ogni notte, quello che non l’avrebbe mai delusa. Quello che tutte le notti le appariva dopo aver chiuso gli occhi. Lui l’amava.
“E se devo scendere all'inferno con lui per sciogliere del tutto e velocemente questo ghiaccio che attanaglia anima e membra, lo seguirò, mi scioglierò dietro i suoi passi e sarà amore per l’eternità. Arrivo Demone.”
Scrisse questo ultimo biglietto e lo appoggiò sul tavolo, poi accese una sigaretta.
“Metto la morte tra le labbra, prendo una lunga boccata. E’ un finto vivere quando si sta morendo. Una boccata di vita, il fumo tra le labbra.” Pensò. Il sapore acre del fumo e del tabacco le stuzzicò il labbro mentre espelleva la morte. Spuntò un sorriso. “Vivo il presente ed evito un futuro, A che serve il futuro se hai nessuno accanto?” una risata isterica colpì le pareti della sua casa e le parve di sentire un’eco.
Si sentì soffocare, come se la morte l’avesse accarezzata per un istante. Le si strinse il petto, un dolore acuto tra le ossa dello sterno. Sentì la sua carne bruciare e il cuore palpitare.
“E’ solo piacere se si riconosce il dolore.” Disse ad alta voce, come per sentire di essere ancora viva. Soffiò fuori il fumo che le accarezzò la bocca. Poi passò la lingua sulle labbra per assaporare il gusto della morte, ogni bacio sulla pelle arsa. Il gusto era acre, poi divenne dolce, lo paragonò all’ultimo dei baci di Tiberio. Un’ultima boccata. Ancora un pensiero legato a lui.
E ancora un sussurro: “E’ un finto vivere, quando si sta morendo...”
Poi si decise, andò in bagno e lasciò correre i suoi pensieri, la sua immaginazione… e c’era lui con lei.
Lui e il bagno. E l’acqua che correva. Osservò la grande vecchia vasca da bagno con i piedi da leone, enormi artigli che la sostenevano; ormai piena fino all’orlo con acqua calda.
Il vapore saliva in vortici seducenti, così fitti da confondere tutto il resto, le pareti e il soffitto scomparirono e c’era tutto un mondo in quella nebbia.
C’era lui. Clio lo sentiva, era parte dell’acqua, era nel vapore e la sua presenza l’avvolse come le sue braccia non avevano mai fatto. Sentì le sue mani stringerle i polsi, un dolore sottile come di una lama tagliente. Quella che affondò sulla carne, a raggiungere le vene.
Lei sapeva quello che voleva, quello che era, ed era convinta che lui era lì per un solo motivo. “Non mi lascerai andare fino a che non ti darò ciò che è tuo.”
Si arrese.
S’ immerse nell’acqua e sentì scivolare via ogni preoccupazione, la sua solitudine, l’ordinarietà della sua vita. L’acqua si chiuse sopra la sua testa e si rilassò.
“Il nostro momento durerà in eterno, rimarrai con me.” I pensieri corsero a lui e poi a quello che avrebbe voluto fare.
“Non ce la faccio ancora, è troppo presto, devo risalire, devo respirare e prendere ancora un altro respiro, e un altro ancora e andare avanti.”
Con la testa fuori dall’acqua, il vapore si diradò e Tiberio era lì, la stava guardando. Lei vide i suoi occhi grigi offuscati, il viso che sembrava essere di marmo, inflessibile e freddo, i capelli bagnati incollati alla nuca.
Chiuse gli occhi e appoggiò la schiena contro la vasca, il vapore le solleticò le narici, il volto era umido. Le rimaneva difficile respirare.
Lo sentì sussurrare il suo nome, Le sembrò rassicurante la sua voce, come se stesse calmando la sua bambina. I seni galleggiavano sulla superficie dell’acqua, senza peso, i capezzoli turgidi bramavano un tocco. Lo attendeva.
E finalmente si avvicinò, posò i suoi baci sugli occhi di Clio, la lingua leccò le gocce di vapore che le ricoprivano il viso. Era delicato.
Lento e delicato.
Le labbra di Tiberio sfiorarono quelle di Clio, i denti affondarono sulle labbra. Le mani impastarono i seni, li strizzarono, tirarono i capezzoli. Lei provò dolore, ma aveva bisogno di sentirlo, aveva bisogno di ricordarlo.
Nel momento in cui Tiberio affondò la lingua nella bocca di lei, Clio aggrovigliò le mani ai capelli di lui, per tirarlo più vicino a sé.
“Non posso lasciarti andare questa volta…”
Allargò le cosce contro i bordi della vasca, offrendosi, in attesa che le dita di lui trovassero la loro strada dentro di lei.
La trovò, lei gemette, sollevò i fianchi, l’acqua traboccò, ma lei aveva bisogno di avere di più. Mentre si contorceva e inarcava il ventre, Tiberio chiuse la bocca su un capezzolo, lo succhiò, lo morse. Lei sentì di nuovo dolore, si trasformò in piacere.
La tenne in bilico fra il piacere e il dolore.
Si accese il corpo e tutto vibrò nella mente di lei. Lui la lasciò un istante e lei si mise in ginocchio, le braccia appoggiate sul bordo della vasca.
Lo sentì subito dietro di lei, fulmineo, il suo corpo fondersi a quello di Clio, le mani si allacciarono ai seni.
“E’ tutto quello che ho sempre voluto, sentirti così vicino, petto contro schiena, le labbra che mi baciano il collo e le dita che tirano i capezzoli.”
Eppure non era sufficiente, il bisogno che sentiva Clio era infinito. Si strofinò conto di lui, sapeva che le avrebbe dato sollievo, sapeva che poteva farlo. Il cazzo contro la figa, lentamente scivolò dentro di lei a completarla.
Poi, senza preavviso, lui spinse duro, martellante. Il nucleo di Clio divenne rovente
“Ti voglio, godi! Fammi godere… Godi.” Urlò lei nei vapori.
Poi strinse con le mani il bordo della vasca, mentre gli schizzi andavano ovunque, seguivano implacabili i movimenti.
Gridò. Clio gridò ancora.
Ondate di piacere la trapassavano, fremeva, tremava, godeva, mentre lui si dissolse con gli ultimi resti del vapore.
“E’ troppo presto.” Sussurrò Clio.
Pianse con gli occhi chiusi.
Si immerse.
Tutta.
Aveva freddo, ma lì rimase, mentre il sangue si confondeva con l'acqua e i brividi le trapassano il corpo prima di cogliere un'ultima immagine dietro le palpebre chiuse: ancora lui, Tiberio, nel suo abito “tronfio” di alta sartoria.
E perse anche il suo ultimo respiro.

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