lunedì 1 settembre 2014

ON THE ROAD di Andrea Lagrein





La strada cantava la sua melodia. Erano le undici e mezza di sera di un luglio particolarmente caldo e io ero steso a letto, completamente nudo, completamente sudato, leggendo un libro fra un birra e l'altra, cullato per dai suoni che salivano da via Ripamonti, l'universo in cui abitavo. Ero talmente assorto dal romanzo che avevo fra le mani che quasi non mi accorsi che stavano suonando alla porta. In realtà non avevo nessuna fottutissima voglia di andare ad aprire. Sicuramente si trattava di qualche battona o di qualche trans che volevano vomitarmi addosso i loro squallidi problemi. O più probabilmente di qualche creditore fortemente motivato. Alla fine però, vista l'ostinazione del misterioso ospite, decisi di andare ad aprire. Era Dino, e dal suo sguardo capii che non avrei finito di leggere. "Presto, dai, vestiti che usciamo!" mi disse visibilmente eccitato. Mi fissò con i suoi occhi infiammati. "Forza, dai, dobbiamo andare e non fermarci mai finché non arriviamo!". "Per andare dove, amico mio?" chiesi senza capire. "Non lo so, ma dobbiamo andare, perché c'è sempre qualcosa di più, un po più in là. Non finisce mai!".
Questo era Dino. Una vita protesa solo in avanti, nell'andare sempre oltre. Oltre la morale, oltre le leggi, oltre i luoghi comuni, oltre il perbenismo, oltre un lavoro fisso, una casa, una famiglia, oltre i mille centri commerciali che spuntavano come funghi un po ovunque. Dino era consumato dalla frenesia di vivere, una frenesia senza regole, senza obiettivi, senza orizzonti, senza speranze, fra lavori di un giorno, lunghi digiuni, sbronze colossali e scopate rubate qua e là. Dino era un folle, uno squilibrato, un instabile, ma anche un essere affascinante, carismatico, filosofo, poeta, romanziere di se stesso.
Questo era Dino e io, cazzo, non riuscivo a dirgli di no! Sicché mi buttai addosso la prima maglietta che riuscii a raccattare, un paio di jeans e via, giù in strada che, famelica, ci attendeva. Il 24 ci passò a fianco sferragliando, con il suo carico di mummie imbalsamate dagli occhi spenti, diretti verso il loro destino. Dino sogghignò mentre me li indicava con una mano. "Morti senza nemmeno saperlo! Uccisi ancor prima di iniziare a vivere!". Nel mentre si preparo' una canna. In effetti i volti sfuggenti che intravvedevo dai finestrini del tram mi sembravano vuoti e spenti. "Carne da macello, Lagrein, schiavi dei freddi ingranaggi della società moderna. Che, per dirla tutta, li vuole proprio così!". Feci due tiri dalla canna che mi passò Dino. "E tu chi cazzo sei, Carlo Marx?". Scoppiò a ridere. "Fratello mio, il comunismo, come il capitalismo, il cristianesimo, il nazismo, la democrazia, la giustizia o l'amore, sono tutte filosofie create per spiegare l'inspiegabile, bei concetti per evitare di sbranarci a vicenda. Guarda tutte quelle persone su quel tram. Cristo, credono di essere felici, appagate, soddisfatte, solo perché hanno un posto fisso e si possono permettere mutui, rate, auto, vacanze e regali di Natale. In realtà son solo vacche all'ingrasso, vitelli sacrificali portati all'altare del credito al consumo. Viviamo in un'alienante catena di montaggio, conformista, monocromatica, materialista. E tutti a rincorrere un sogno che poi sogno non è, ma è solo un pazzesco incubo che alla fine ti fa uscire di testa!".
Camminavamo lungo la strada. Fumavamo marijuana mentre ascoltavo i suoi farneticamenti psicosociali, che poi tanto farneticanti non lo erano. I lampioni illuminavano i nostri passi mentre nugoli di zanzare festeggiavano al nostro passaggio. Due viados ci passarono a fianco. "Ci divertiamo insieme?" chiesero sfrontati. Del resto il business è business, nonostante i nostri vestiti non promettessero gran che. Dino si fermò. "Certo bellezze!" rispose con un sorriso furfantesco. "Per cinquanta euro vi faccio succhiare il mio uccello! Andiamo?". "Stronzo!" fu la risposta di uno dei due, che se ne andarono alquanto contrariati. Questo era Dino, un avanzo di galera che non guardava in faccia a niente e nessuno, che si trattasse di un dirigente o una mignotta di marciapiede. Questo era Dino, perfetto figlio della strada, vagabondo, alcolizzato, drogato e puttaniere, cresciuto da solo, senza madre né padre, educato nei vari riformatori cittadini, cullato dalle molte troie del quartiere.
Attraversammo la circonvallazione continuando a percorrere via Ripamonti. La 90 si fermò davanti a noi vomitando il suo carico di extracomunitari che, svelti, tentavano di raggiungere i loro tuguri domestici. Dino sputò per terra. "Eccoli i nuovi conquistatori delle nostre città! Magrebini, arabi, cinesi, cingalesi, pakistani. I nostri nipoti prenderanno ordini da questa gente, che adesso ci cammina davanti con le pezze al culo. Ma domani ci diranno cosa possiamo e cosa non possiamo fare. E sai perché? Perché loro sono ancora moralmente integri, a differenza di noi altri, che abbiamo scambiato Dio per un Winnie the Pooh di pezza!". Dino mi fissò serio in volto. "Siamo finiti in un baratro, in un abisso, in una cazzo di voragine, dove abbiamo smarrito i nostri valori morali, le nostre tradizioni, i miti, i riferimenti politici, sociali, religiosi. E per cosa, poi? Per una fottutissima Play Station del cazzo! Per questo preferisco stare in mezzo alla strada, Lagrein. Almeno sto a contatto con la realtà, con la vita, anche se spesso è puzza e merda!". Sospirai. "Ti capisco. Anche se inizio ad aver le palle piene di tutta sta merda!". Dino si fece una bella risata. "Hai ragione. Dai, Cristo, andiamo a schiarirci le idee facendoci un paio di bicchierini di quelli giusti!". Lo seguii, anche perché iniziavo ad avere una certa sete.
Eravamo giunti nella parte di Ripamonti che confina con la zona della Bocconi, centro nevralgico per la creazione dei futuri manager di domani. Bei locali, Maserati e Mercedes, vestiti Armani e Dolce&Gabbana portati con nonchalance, gente allegra e festaiola. Dino si diresse senza esitazione verso un pub da cui proveniva a tutto volume lo splendido jazz di Charlie Parker, roba sopraffina, roba di gran classe, roba per intenditori. "Aspettami qui!" mi disse sparendo all'interno del locale. Mi accesi una sigaretta mentre osservavo la gente fuori dal bar, ripensando alle parole di Dino. Cazzo, scambiare Dio per Winnie the Pooh non era mica male come metafora! Rendeva decisamente bene l'idea della povertà intellettuale e morale che ci circondava. Ma questo era Dino, uno che era capace di ruttarti in faccia subito dopo averti citato un paio di terzine di Dante.
Poco dopo uscì con due bicchieri in mano, sorridente e felice come un bimbo. "Assaggia un po questo, Lagrein! Il barista è un mio vecchio amico!". Mi fece l'occhiolino. Cazzo! Uno scotch puro malto torbato, probabilmente invecchiato di vent'anni. Paragonabile quasi a un orgasmo! "Eh? Che ne dici?". "Dico che il tuo amico è un fottutissimo figlio di puttana che se ne intende di sta roba!". Dino annuì mentre buttava giù in un sol sorso tutto il suo whisky. "Mi tratta sempre bene. E poi non mi fa mai pagare!". Sorridemmo entrambi. Dino sapeva come vivere!
Nel mentre un gran bel pezzo di ragazza si avvicinò a noi e con grande disinvoltura abbracciò Dino. "Ciao ragazzaccio, questa sera niente parchetto?" chiese maliziosamente. Il mio amico mi guardò ammiccando. "Questa sera sto vagabondando con il mio amico Lagrein" disse indicandomi. "E' un giovane scrittore squattrinato molto promettente e io mi sono messo d'impegno per fornirgli materiale da cui trarci un ottimo racconto. Questa sera non c'è posto dove andare se non dappertutto, non c'è altro da fare se non vagare sotto le stelle!". Questo era Dino, un fottutissimo poeta di strada! La ragazza si avvicinò e si presentò. "Ciao, mi chiamo Lola. E questa sera, sotto le stelle, ci faremo una gran bella scopata. Dino, io, tu e la mia amica Marilù!". Le feci un inchino, ammaliato da una simile intraprendenza. Il mio amico se la rideva alla grande, non so se divertito da quella sfacciataggine o se eccitato da quel che ci attendeva.
Quasi subito ci raggiunse Marilù, che non perse tempo e mi si avvinghiò contro. Era decisamente sbronza. Puzzava di alcol da morire. Fra negroni, margarita, birra e chissà che altro, aveva uno sguardo decisamente poco sobrio. Ma non è che me ne curassi granché. Questa era una notte di follia e la strada il suo naturale teatro. Non era una bellezza, Marilù, ma la marijuana e soprattutto l'eccellente whisky rendevano tutto decisamente più sopportabile.
In breve tempo raggiungemmo il parco Ravizza, famoso per le sue notti da trans e spacciatori, ubriaconi e barboni. "Il richiamo della natura è prepotente, amico mio. Ti lascio nelle sapienti mani di Marilù, mentre io penso a dare una bella ripassata alla nostra Lola!". Dino sghignazzò divertito, preda dell'eccitazione del momento. Dopo pochi istanti era già svanito dietro un albero. Mi sedetti su una panchina insieme a Marilù. Erano ormai le tre di notte e l'aria finalmente iniziava a rinfrescare. Non avevo granché da dire a quella ragazza, che manco conoscevo. Sicché rimasi in silenzio a fissare il cielo stellato. Non passò molto che sentii le sue mani scivolare sul mio inguine. Chiusi gli occhi e la lasciai fare. Che tristezza! Nemmeno una parola, un come stai, cosa fai nella vita, quali aspirazioni hai. Nulla! Solo le sue labbra che, voraci, iniziarono a correre lungo il mio sesso. Ma in fondo la strada ti insegnava anche questo. Vivere, vivere intensamente il qui e ora, senza curarti di ciò che sarà. Chiusi gli occhi e le riempii la bocca, pensando solo a me stesso, al mio piacere, alla mia soddisfazione, da buon randagio quale ero.
Le uniche persone che esistevano per quelli come noi erano i pazzi, i pazzi di voglia di vivere, di parole, di salvezza, i pazzi del tutto e subito, quelli che non sbadigliavano mai e non dicevano mai banalità, ma bruciavano, bruciavano, bruciavano come favolosi fuochi d'artificio. Pazzi come noi, che dovevamo ancora andare lontano. Ma che importava, la strada era la vita!
Godetti di quegli istanti rubati a una sconosciuta. Godetti sotto il cielo stellato. E sono sicuro che Dino godette ancor di più! Di fatti riapparve traballante sulle gambe, sorridente come un ubriaco, sbronzo di orgasmo. Sogghignammo entrambi. Il tempo di salutare le due amiche improvvisate e via nuovamente in cammino lungo via Ripamonti. Infondo l'unica cosa che sapevamo fare era andare, andare avanti, lungo la strada, fuggendo, fuggendo da tutto e da tutti. Fuggendo da noi stessi, rifiutando tutto ciò che questa società che sentivamo sbagliata ci offriva.
Fuggimmo finché l'alba ci sorprese mezzi sbronzi a uno di quei chioschi ambulanti mentre affogavamo nell'ennesima lattina di birra, filosofeggiando sulla nostra incapacità di mettere radici. Del resto il nostro continuo vagare non era una strada per ricercare la felicità, bensì una strada per sfuggire all'infelicità!
Tornai a casa mentre la brava gente si apprestava a uscire per andare a lavorare. Tornai a casa sbronzo mentre dagli usci dei miei vicini proveniva profumo di caffè e marmellata. Ma questa era la mia strada! Mi tolsi maglietta e pantaloni e mi ristesi a letto, completamente nudo, completamente sudato, completamente ubriaco. Mi addormentai. Di fianco a me era ancora aperto il libro che stavo leggendo.
Jack Kerouak. On the road!

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