***PAGINE DEGLI AUTORI ***
SFACCIATAMENTE TROIA di Andrea Lagrein
Era
un periodo in cui buttava tutto male. Di quelli in cui, ovunque ti
volti, vedi solo merda, merda e ancora merda. Ai tempi non ne ero
abituato. Oggi non vi faccio più nemmeno caso! E quella sera diluviava
pure. Freddo, vento e un acquazzone di proporzioni bibliche. Mi
trascinavo dal divano al letto, dal letto alla sedia, dalla sedia al
cesso, fra una birra e una sigaretta.
Avevo appena divorziato. E la
ferita era ancora lì, che sanguinava abbondantemente, fra scopate senza
senso, rimorsi e dubbi di ogni genere. Avevo perso anche il lavoro. Mi
toccava barcamenarmi da una precarietà all'altra, accettando qualsiasi
cosa pur di non affondare. Eppure son laureato, mi ripetevo! Eppure non
frega un cazzo a nessuno, mi ripetevano! Non che fossi propriamente
ligio al dovere, devo ammetterlo. Ma la situazione era disperata.
Nella tasca del mio giaccone c'era poi quella lettera, quella di cui
mancavo del coraggio per aprirla. Ma ne conoscevo benissimo il
contenuto. Sfratto! Da tre mesi non pagavo l'affitto. Non si poteva
pretendere gran che. Ognuno ha le proprie ragioni. E le loro erano
decisamente più forti e sensate delle mie!
Fra due settimane me ne
sarei dovuto andare. Ma non sapevo dove. La mia inedia certo non mi
aiutava. Passare tutto il giorno a non fare un cazzo sul divano non era
la soluzione. Eppure passavo tutto il giorno a non fare un cazzo sul
divano!
Ma la cosa che più mi affliggeva era averla persa. Lei, la
musa ispiratrice. Da che mi ricordi, addirittura fin da bambino, ho
sempre scritto. E' una passione! Come il collezionismo, le auto, le
scarpe, i Montecristo, la figa o il rum. Non ho mai pensato a farlo di
mestiere, ma solo per diporto e piacere. Scrivere di professione è fatto
serio, e che cazzo! Ma quando scrivo, entro in un universo tutto mio,
dimenticando ogni cazzata, problema, affanno e dolore. Quando scrivo
sono me stesso. Quando scrivo......guarisco!
Eppure, in quei giorni,
pensieri e idee si accartocciavano su se stessi, in grovigli senza
senso a cui non sapevo dare nome e cognome. Sì, insomma, ero
letteralmente bloccato, con la voglia di, ma senza averne la capacità.
Era frustrante. Ero frustrato. Si aggiunga tutto il resto et voilà, il
quadro era perfetto!
Decisi di uscire. Stare in casa non avrebbe
risolto i miei problemi. A pochi isolati c'era uno dei miei bar
preferiti. Spacciatori, papponi, gangster da tragicommedia,
nullafacenti, falliti di ogni genere e a volte anche qualche puttana. Ci
si usmava e ci si riconosceva. Tutti figli della medesima madre. Tutti
fratelli dello stesso bicchiere. Prosit!
Il calore e il tanfo di
quei corpi alla deriva riscaldava quella fredda serata di tardo autunno.
Ognuno perso nei propri problemi, si cercava qualche ora di
sopravvivenza in quel locale sporco e maleodorante. Ma questa era la mia
gente, questa era la mia realtà. E in fondo non avrei desiderato di
essere in nessun altro posto.
Lei era seduta al banco di fianco a
me. Sfacciatamente troia! Sguardo annoiato, trucco pesante, divisa
d'ordinanza da marciapiede, occhi annacquati dai troppi bicchieri,
profumo pungente da battona consumata. Cristo, non era nemmeno carina
con quella sua aria da rottame di periferia!
“Stasera proprio non mi
va di lavorare” bofonchiò più a se stessa che a qualcuno in
particolare. Bevvi la mia rossa doppio malto e non le diedi corda. “Cosa
fai nella vita?” mi domandò voltandosi a guardarmi. Continuai a fissare
dritto davanti a me. “Niente!” sibilai in un sussurro. “Io sono un
insegnante di scuole medie!” biascicò con voce impastata. A quel punto
mi girai a osservarla. Questa proprio non me la sarei aspettata.
Rise sguaiatamente alla mia sorpresa. “Insegnante non di ruolo. Qualche
mese qui, un paio di settimane là e uno stipendio con cui non ci pago
nemmeno le bollette!”. Questa volta sorrise amaramente. “Tiro avanti
grazie alle mie tette e al mio culo. Altrimenti sarei già morta di fame.
Faccio la puttana, e le cose non vanno male. Sono una precaria!” disse
buttando giù tutto d'un fiato l'ultimo sorso di gin.
“La precarietà
come stile di vita!” sentenziai ironico. “In fondo, di sti tempi, è
ormai quasi una moda!”. Diedi fondo alla mia birra. Lei mi posò la mano
sul braccio. “Passiamo la notte insieme?”. Sbuffai. “Ti butta male,
bimba! Non sono un buon cliente. Completamente al verde!” dissi
allargando le mani in un gesto di rassegnazione.
Lei sorrise. “Ti
ho già detto che non ho voglia di lavorare questa sera. Voglio solo
essere una donna con un uomo. Tutto qui”. Desiderio di normalità. O
forse fuga dalla normalità!
Era una serata fredda. Si preannunciava
una notte gelida. Essere scaldato dal calore di un corpo umano non
sarebbe stata una cattiva idea. Soppesai la sua proposta. Ma nemmeno più
di tanto. “In questo caso, sarei ben felice di ospitarti nella mia
sontuosa dimora” proposi senza grande convinzione. Lei rise. “Ne sarei
tremendamente onorata, sir!”.
Così uscimmo dal locale e in breve
entrammo in casa mia. Nemmeno il tempo di chiudere la porta che già la
sua lingua guizzava nella mia bocca. Le nostre precarietà si fusero in
un'esplosione di violenta passionalità. Come due animali rabbiosi
iniziammo una lotta senza quartiere, spogliandoci a vicenda graffiando i
nostri corpi. “Questa sera non voglio essere fottuta. Questa sera
voglio essere io a fottere!” ansimò il suo grido di battaglia.
Ci
buttammo sul letto in una scopata infuocata. Si avvinghiò al mio corpo
in modo quasi disperato, come fosse l'ultima sua ancora di salvezza.
Sprofondai nella sua fica con una veemenza inusitata, caldo rifugio per
la mia disperazione. La sua abilità di mestierante da marciapiede lasciò
il posto al desiderio di femmina solitaria in cerca di un calore a
lungo dimenticato. Mi scopava con passione, foga e lussuria, nella vana
illusione di cancellare le proprie giornate.
Affondavo le mani nei
suoi seni pesanti, nelle sue cosce abusate, nei suoi fianchi cedevoli.
Affondavo l'uccello nella sua vulva rifugio di molti, strumento contro
la disperazione, antro a buon mercato. Affondavo in questa maestrina
sfacciatamente troia, miseramente realista, dolcemente sognatrice.
Affondavo in lei ma in lei, lentamente, mi sentivo rinascere.
Sfiniti dai nostri amplessi infuocati, rimanemmo stesi nel letto uno di
fianco all'altra, silenziosi, pensierosi, fradici dei nostri umori e
delle nostre voglie. Umidi dei nostri desideri di fuga.
“Posso
rimanere a dormire?”. Più che una domanda era una preghiera. Questa era
la mia gente e alla mia gente non avrei mai potuto dire di no. Si
addormentò in breve tempo. Stanca reduce dal campo di battaglia della
vita.
Mi alzai e mi feci una birra. L'occhio mi cadde distrattamente
sul tavolo. Carta e penna erano lì. Un brivido mi corse per la schiena.
Freddo? No! Era l'eccitazione di un'idea che finalmente appariva
nitida. Era il fremito nel sentire nuovamente quell'ispirazione a lungo
smarrita. Mi sedetti sulla sedia, presi in mano la penna e, fluide, le
parole iniziarono a correre sotto di me.
Lei russava pesantemente.
Mi voltai a guardarla in tutta la sua volgarità, in tutta la sua
tenerezza. Lei era la mia gente, apparteneva al mio mondo. Lei era la
mia musa ispiratrice.
Sfacciatamente troia!
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