lunedì 21 ottobre 2013

SFACCIATAMENTE TROIA di Andrea Lagrein




Era un periodo in cui buttava tutto male. Di quelli in cui, ovunque ti volti, vedi solo merda, merda e ancora merda. Ai tempi non ne ero abituato. Oggi non vi faccio più nemmeno caso! E quella sera diluviava pure. Freddo, vento e un acquazzone di proporzioni bibliche. Mi trascinavo dal divano al letto, dal letto alla sedia, dalla sedia al cesso, fra una birra e una sigaretta.
Avevo appena divorziato. E la ferita era ancora lì, che sanguinava abbondantemente, fra scopate senza senso, rimorsi e dubbi di ogni genere. Avevo perso anche il lavoro. Mi toccava barcamenarmi da una precarietà all'altra, accettando qualsiasi cosa pur di non affondare. Eppure son laureato, mi ripetevo! Eppure non frega un cazzo a nessuno, mi ripetevano! Non che fossi propriamente ligio al dovere, devo ammetterlo. Ma la situazione era disperata.
Nella tasca del mio giaccone c'era poi quella lettera, quella di cui mancavo del coraggio per aprirla. Ma ne conoscevo benissimo il contenuto. Sfratto! Da tre mesi non pagavo l'affitto. Non si poteva pretendere gran che. Ognuno ha le proprie ragioni. E le loro erano decisamente più forti e sensate delle mie!
Fra due settimane me ne sarei dovuto andare. Ma non sapevo dove. La mia inedia certo non mi aiutava. Passare tutto il giorno a non fare un cazzo sul divano non era la soluzione. Eppure passavo tutto il giorno a non fare un cazzo sul divano!
Ma la cosa che più mi affliggeva era averla persa. Lei, la musa ispiratrice. Da che mi ricordi, addirittura fin da bambino, ho sempre scritto. E' una passione! Come il collezionismo, le auto, le scarpe, i Montecristo, la figa o il rum. Non ho mai pensato a farlo di mestiere, ma solo per diporto e piacere. Scrivere di professione è fatto serio, e che cazzo! Ma quando scrivo, entro in un universo tutto mio, dimenticando ogni cazzata, problema, affanno e dolore. Quando scrivo sono me stesso. Quando scrivo......guarisco!
Eppure, in quei giorni, pensieri e idee si accartocciavano su se stessi, in grovigli senza senso a cui non sapevo dare nome e cognome. Sì, insomma, ero letteralmente bloccato, con la voglia di, ma senza averne la capacità. Era frustrante. Ero frustrato. Si aggiunga tutto il resto et voilà, il quadro era perfetto!
Decisi di uscire. Stare in casa non avrebbe risolto i miei problemi. A pochi isolati c'era uno dei miei bar preferiti. Spacciatori, papponi, gangster da tragicommedia, nullafacenti, falliti di ogni genere e a volte anche qualche puttana. Ci si usmava e ci si riconosceva. Tutti figli della medesima madre. Tutti fratelli dello stesso bicchiere. Prosit!
Il calore e il tanfo di quei corpi alla deriva riscaldava quella fredda serata di tardo autunno. Ognuno perso nei propri problemi, si cercava qualche ora di sopravvivenza in quel locale sporco e maleodorante. Ma questa era la mia gente, questa era la mia realtà. E in fondo non avrei desiderato di essere in nessun altro posto.
Lei era seduta al banco di fianco a me. Sfacciatamente troia! Sguardo annoiato, trucco pesante, divisa d'ordinanza da marciapiede, occhi annacquati dai troppi bicchieri, profumo pungente da battona consumata. Cristo, non era nemmeno carina con quella sua aria da rottame di periferia!
“Stasera proprio non mi va di lavorare” bofonchiò più a se stessa che a qualcuno in particolare. Bevvi la mia rossa doppio malto e non le diedi corda. “Cosa fai nella vita?” mi domandò voltandosi a guardarmi. Continuai a fissare dritto davanti a me. “Niente!” sibilai in un sussurro. “Io sono un insegnante di scuole medie!” biascicò con voce impastata. A quel punto mi girai a osservarla. Questa proprio non me la sarei aspettata.
Rise sguaiatamente alla mia sorpresa. “Insegnante non di ruolo. Qualche mese qui, un paio di settimane là e uno stipendio con cui non ci pago nemmeno le bollette!”. Questa volta sorrise amaramente. “Tiro avanti grazie alle mie tette e al mio culo. Altrimenti sarei già morta di fame. Faccio la puttana, e le cose non vanno male. Sono una precaria!” disse buttando giù tutto d'un fiato l'ultimo sorso di gin.
“La precarietà come stile di vita!” sentenziai ironico. “In fondo, di sti tempi, è ormai quasi una moda!”. Diedi fondo alla mia birra. Lei mi posò la mano sul braccio. “Passiamo la notte insieme?”. Sbuffai. “Ti butta male, bimba! Non sono un buon cliente. Completamente al verde!” dissi allargando le mani in un gesto di rassegnazione.
Lei sorrise. “Ti ho già detto che non ho voglia di lavorare questa sera. Voglio solo essere una donna con un uomo. Tutto qui”. Desiderio di normalità. O forse fuga dalla normalità!
Era una serata fredda. Si preannunciava una notte gelida. Essere scaldato dal calore di un corpo umano non sarebbe stata una cattiva idea. Soppesai la sua proposta. Ma nemmeno più di tanto. “In questo caso, sarei ben felice di ospitarti nella mia sontuosa dimora” proposi senza grande convinzione. Lei rise. “Ne sarei tremendamente onorata, sir!”.
Così uscimmo dal locale e in breve entrammo in casa mia. Nemmeno il tempo di chiudere la porta che già la sua lingua guizzava nella mia bocca. Le nostre precarietà si fusero in un'esplosione di violenta passionalità. Come due animali rabbiosi iniziammo una lotta senza quartiere, spogliandoci a vicenda graffiando i nostri corpi. “Questa sera non voglio essere fottuta. Questa sera voglio essere io a fottere!” ansimò il suo grido di battaglia.
Ci buttammo sul letto in una scopata infuocata. Si avvinghiò al mio corpo in modo quasi disperato, come fosse l'ultima sua ancora di salvezza. Sprofondai nella sua fica con una veemenza inusitata, caldo rifugio per la mia disperazione. La sua abilità di mestierante da marciapiede lasciò il posto al desiderio di femmina solitaria in cerca di un calore a lungo dimenticato. Mi scopava con passione, foga e lussuria, nella vana illusione di cancellare le proprie giornate.
Affondavo le mani nei suoi seni pesanti, nelle sue cosce abusate, nei suoi fianchi cedevoli. Affondavo l'uccello nella sua vulva rifugio di molti, strumento contro la disperazione, antro a buon mercato. Affondavo in questa maestrina sfacciatamente troia, miseramente realista, dolcemente sognatrice. Affondavo in lei ma in lei, lentamente, mi sentivo rinascere.
Sfiniti dai nostri amplessi infuocati, rimanemmo stesi nel letto uno di fianco all'altra, silenziosi, pensierosi, fradici dei nostri umori e delle nostre voglie. Umidi dei nostri desideri di fuga.
“Posso rimanere a dormire?”. Più che una domanda era una preghiera. Questa era la mia gente e alla mia gente non avrei mai potuto dire di no. Si addormentò in breve tempo. Stanca reduce dal campo di battaglia della vita.
Mi alzai e mi feci una birra. L'occhio mi cadde distrattamente sul tavolo. Carta e penna erano lì. Un brivido mi corse per la schiena. Freddo? No! Era l'eccitazione di un'idea che finalmente appariva nitida. Era il fremito nel sentire nuovamente quell'ispirazione a lungo smarrita. Mi sedetti sulla sedia, presi in mano la penna e, fluide, le parole iniziarono a correre sotto di me.
Lei russava pesantemente. Mi voltai a guardarla in tutta la sua volgarità, in tutta la sua tenerezza. Lei era la mia gente, apparteneva al mio mondo. Lei era la mia musa ispiratrice.
Sfacciatamente troia!

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