giovedì 10 aprile 2014

PAGE di Medusa Riggio




PAGE, era nata in Inghilterra ad Amesbury, da una famiglia felice almeno così ricordava, perchè aveva quattro anni quando il suo papà era stato trasferito in Italia per motivi di lavoro. Dicevano che era una promozione ma col tempo era certa che fosse stata una punizione più che una lode.
Ha iniziato a frequentare le scuole pubbliche, dicevano che si sarebbe integrata meglio, anche se non passava inosservata visto i folti e ricci capelli rossi, per non dire delle lentiggini sempre più vistose sulla sua pelle bianco-latte.
I bimbi a quell'età non sono cattivi tranne se non hanno ad esempio una maestra come la loro. Era mancina e questo è stato il primo punto di scontro con la maestra dai capelli neri come la pece raccolti in uno chignon impeccabile.
-Page, quante volte devo dirtelo, non con quella mano!
le urlava nell'orecchio e contemporaneamente, alla velocità della luce, un AGO uscito dal nulla le pungeva ripetutamente il dorso della mano sinistra.
-Oh cielo, diventerai una figlia del diavolo, se continui ad usarla.
mentre i compagni le ridevano addosso.
Rientrava a casa che la mano sembrava una ragnatela rossa, tanto sembravano le goccioline di sangue che la imperlavano, e la nascondeva, altrimenti la mamma si sarebbe preoccupata davvero, pensando anche lei che diventasse una figlia del diavolo. La mamma di Page era una donna di chiesa, tutti i pomeriggi a dire il Rosario e pregare per avere una vita in grazia di Dio.
La piccola non osava chiedere se il suo Dio era destro o mancino, sapeva soltanto di addormentarsi su un cuscino intriso di lacrime pregando lo stesso Dio affinchè imparasse al più presto ad usar l'altra mano.
Indimenticabile l'EMOZIONE che aveva provato quando finì quella tortura, già, perchè quella maestra non smise finchè non iniziò a scrivere perfettamente con la destra.
Finì così le scuole dell'obbligo e con alcune compagne si ritrovò alle superiori insieme. Facevano un bel GRUPPO, avevamo le stesse passioni, tra cui la musica. Il sabato sera andavano in un bar-pizzeria dove ogni tanto organizzavano gare di canto in diretta con la stazione RADIO locale.
Era proprio un sabato sera, l'aria fresca di un aprile tiepido, dove però la primavera sembrava non voler sbocciare.
Il nuovo Dj non alzava gli occhi dal suo mixer, o meglio gli occhiali da sole, un tipo strano, capelli lunghi, gilet da motociclista, jeans sgualciti, stivali infangati. Proprio strano, ma una calamita per Page naturalmente.
E più le sembrava strano più doveva assolutamente conoscerlo, così mentre le sue amiche ballavano lei si avvicinò alla console con la scusa di un disco. Le fece un cenno col capo, come per dire
"si, ok, basta che mi lasci in pace",
e lei ancora lì a fissarlo. Aveva anche un maledetto orgoglio Page, quindi voltò le spalle e continuò la serata, dimenticandosi di lui, sino a ritrovarselo appoggiato alla portiera della sua auto quando ormai il locale aveva finito la sua serata. La fissava sempre da dietro le lenti scure,
-Ciao, vieni a fare un giro con me.-
Non era una domanda, era un comando. Tanto forte da renderla un automa. Lo seguì senza rispondergli, solo quando il vento ormai freddo della notte iniziò a schiaffeggiarle il volto, si rese conto di esser salita sulla sua moto senza meta, ma ancora peggio senza conoscerlo.
Si fermarono davanti ad una scalinata, poche ore e sarebbe arrivata l'alba, alzò lo sguardo e si accorse che erano al Museo di ARTE Moderna. Salirono di corsa le scale, lui quasi la tirava tenendola per mano, correvano ora sotto le maestose colonne del Museo, le cui ombre sembravano correre insieme a loro.
Era evidente che conosceva bene il posto, visto che entrarono da una porticina sul retro che lei non aveva mai notato.
I musei l'avevano sempre affascinata, erano luoghi narranti di un MONDO mai vissuto, se non sui libri di scuola.
I corridoi era appena illuminati, non era una che si spaventava facilmente ma quelle ombre che guizzavano sui muri la inquietavano mentre nella sua mente mille domande rimbombavano senza risposta.
Aveva il fiatone e gocce di sudore le imperlavano la fronte mentre lui sembrava fresco come una rosa. Ecco, erano piccoli segnali che non aveva saputo riconoscere.
Fine della corsa, una porta altissima, di legno, con un grosso anello dorato che lui usò per tre, due, ed ancora tre volte. Un segnale sicuramente, ma a chi, lo scoprii da lì a poco.
Un enorme sala si aprì davanti ai suoi occhi, illuminata da tremule fiaccole appoggiate alle pareti, si dovevano abituare a quella luce tremante, ma più che gli occhi era lei che non si capacitava a ciò che aveva davanti.
La riproduzione esatta del sito neolitico che si trova vicino ad Amesbury!
La riconobbe subito, come avrebbe potuto non farlo, suo padre l'aveva portata con se' più di una volta, raccontandole storie fantastiche su quel luogo pieno di magia, e lei piccolina si sentiva meno grande di una formica accanto a quelle enormi PIETRE secolari. L'unica cosa che stonava su tutto l'ambiente era l'altrettanto enorme SPECCHIO che faceva da soffitto a quell'enorme salone.
Nel momento stesso in cui si girò verso lo sconosciuto dagli occhiali da sole, l'unico suono che uscì dalla sua gola fu un urlo che risuonò spettrale perfino alle sue orecchie. Lui era, no, non era vero, si diceva, mentre la sua pelle si rivestiva lentamente di squame, gli occhi cambiavano colore, dal collo e dalla schiena iniziavano ad spuntare mille spuntoni, simili a spine.
Stava sognando o meglio era un incubo! "Oh miodio", gemette si stava lentamente trasformando in una Phrynosoma cornutum, una LUCERTOLA cornuta! Che c'entrava una lucertola con la leggenda di Re Artù? Ma soprattutto com'era possibile tutto questo? E lei che ci faceva lì?
Queste furono una parte delle numerose domande che Page riuscì a formulare in pochi secondi che le sembrarono eternità. Domande a cui non seppe mai dare una risposta. Forse lo choc che ne seguì nel vedere apparire uno ad uno uomini-lucertola da dietro le gigantesche pietre. Rimase immobile sperando e pregando, realizzava che alcuni animali non attaccavano chi gli sta difronte se non si muove, mentre l'essere che l'aveva portata lì la guidava al centro del cerchio, facendola stendere sul pavimento gelido; in quella posizione poteva osservare la sua immagine riflessa sopra di lei nell'enorme specchio.
I suoi occhi erano pieni di terrore adesso e la sua unica preghiera era di ricevere una morte veloce e fulminea che non la facesse soffrire. Ma non era la morte ad attenderla, almeno non ancora.
L'unica cosa che ricordava fino agli ultimi istanti della sua vita, cantandola con un filo di voce quasi impercettibile, fu la melodia, se così si può chiamare, del canto d'amore degli uomini- lucertola, un suono sibillino misto a parole, come note portate dal vento in una notte d'estate.
Questo è quello che mi racconta mia nonna ogni volta che le chiedo della mamma, che io non ho mai conosciuto visto che morì subito dopo il parto, quando mi posero tra le sue braccia.

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