venerdì 6 settembre 2013

CANAL GRANDE di Giuseppe Balsamo




Lo avvertivo arrivare da lontano il rombo di quel motore, in pochi attimi me lo trovava davanti con quel ghigno strafottente, i capelli neri impomatati e pettinati all’indietro e quegli occhi rossi come le fiamme dell’inferno. Non mi diceva nulla, masticava tabacco puzzolente e mi fissava dando gas. Sentivo la mia voce terrorizzata ed arrabbiata “Figlio di puttana prendi me!!”. L’uomo continuava a sorridermi e, dopo aver ascoltato più volte le mie parole concitate, si limitava a rispondere: “Mi dispiace fratello, non sei in lista”, ripartendo e scomparendo nella notte.
Immediatamente dopo, un esplosione irreale mi svegliava, in un bagno di sudore, lasciandomi con il cuore che me batteva a mille ed in carenza di ossigeno.
Di solito era pomeriggio inoltrato, non dormivo più la notte, le uniche ore di sonno che mi concedevo erano di giorno, serravo le imposte, creavo la notte in casa e provavo a chiudere gli occhi per qualche ora, uscivo che ormai fuori la luna era già alta, mangiucchiavo qualcosa e andavo in quel fottuto posto.
Tutto era cominciato un anno prima a Venezia, me l’ero trovata al tavolo verde, avevamo cominciato a fare le stesse puntate ed a vincere, un sacco di soldi, tutti in una sola serata. Entrambi sposati, avevamo riso, flirtato, da quella notte avevamo cominciato a far l’amore, rischiando e puntando su una relazione difficile, vincendo ancora, probabilmente pensavamo che insieme saremmo stati più forti della dea bendata e nulla sembrava impossibile.
Non erano stai molti i nostri incontri, tutte le volte però mi avevano lasciato addosso il desiderio di rivederla ancora, un crescendo costante che ci spingeva a ad essere complici, a provare sempre cose nuove, giocavamo a letto come due adolescenti, finchè le forze non ci abbandonavano e crollavamo sorridenti uno a fianco all’altro, in attesa di essere sorpresi dalle nostre voci; a raccontarci a vicenda, nel buio, le rispettive sensazioni, lasciando alle mani il piacere di accarezzare quelle frasi sussurrate dopo l’amore.
Quella sera, mentre guidavo per le strade umide e scure di un settembre piovoso, mi sorpresi a ricordare l’ultima volta che eravamo stati insieme: come sempre poche ore rubate alla nostra vita quotidiana. Quella volta lei, sorridente, aveva tirato fuori dalla borsa due lunghi nastri di tessuto lucido: uno scuro e l’altro rosa, facendoli passare maliziosamente sul mio viso, invitandomi ad usarli.
Non mi ero certo fatto pregare. Quando la bendai col nastro nero, legandola poi alla testiera del letto con quello rosa, ridevamo entrambi come due cretini. All’inizio non ci fu nulla di erotico, cominciai a farle il solletico sapendo quanto lo soffriva, divertendomi ad osservarla muoversi sul letto impazzita. Dopo averla baciata, lei comprese che il nostro gioco stava cominciando. Le mie dita e la mia lingua percorrevano il suo corpo, sorprendendola ogni volta. Più vedevo la sua pelle d’oca, più lei mi implorava di scoparla, di sbatterla, più indugiavo sul suo sesso senza penetrarla. Quando alla fine anche non ne potevo più, lentamente entravo dentro di lei. La ascoltavo gemere e le sue gambe mi avvinghiavano: “Fammi godere..” le sue parole risuonavano nelle mie orecchie mentre da un movimento lento passavo a colpi profondi, violenti, impetuosi, come se avessi voluto raggiungerle l’anima, penetrarle i pensieri. Sentivo il suo corpo inarcarsi sotto il mio, come a volermi ricevere completamente, poi un suono lamentoso e le sue parole nel suo orgasmo : “Slegami…slegami…ti prego …slegami…”.
Crudele mi limitavo a toccare quel nastro rosa, fingendo di liberarla, consapevole di voler protrarre quel gioco ancora a lungo. I suoi lamenti ed i tuoi gemiti non mi impietosivano per nulla, alimentavano la voglia di stuzzicarla all’infinito.
Avrei potuto scioglierla nel suo orgasmo, ma proferivo goderne mentre era incatenata al desiderio costante.
Fui su lei, sul suo viso, i suoi “Basta..!! voglio vederti..voglio toccarti”, mi accompagnavano al liquido piacere che riversavo sulla sua pelle nuda.
Con quel pensiero che svaniva nella mia testa come una nube portata via dal vento, parcheggiai l’auto ed entrai, percorrendo i lunghi corridoi col pavimento in linoleum e le pareti bianche con quei quadri appesi che non riuscivano a risollevare l’umore di nessuno. I neon accesi facevano perdere la dimensione temporale, quando passai davanti la sua camere fui contento che quelle luci le luci fredde e spettrali fossero spente, illudendomi che così non potesse avere cognizione di quel tempo trascorso.
Mi avvicinai, aveva le palpebre abbassate, bella come solo lei poteva essere per i miei occhi, pensai che stesse dormendo, passai la mano sul suo capo privo di capelli, diedi un’occhiata alla flebo contente l’antidolorifico e sentii che mi stringeva la mano. Ci guardammo e mi sorrise:”Sono qui tesoro mio…va tutto bene”. Non parlò continuando a sorridermi mentre mi sedevo sul letto.
Solo allora scivolò in un sonno profondo, quasi aspettasse me per farlo, indotta forse dalla morfina. Le lasciai delicatamente la mano, accarezzandole nuovamente il capo glabro. Cominciai a guardarmi intorno, c’era un mazzo di fiori, forse li aveva portati il marito, forse i parenti. Sul comodino di fianco al letto, tra le riviste, notai un contenitore di fotografie. Per ingannare il tempo cominciai a guardarle.
Era lei da ragazzina: già bella, ma non così bella come la vedevo in quel momento, seppur divorata da cellule impazzite che continuavano a riprodursi nel caos. Non erano più di tre o quattro foto, ce ne era una in cui si festeggiava un compleanno, ma non il suo quello di una sua coetanea; potevano avere 16 anni. Sorrisi quando ne vidi una di lei abbracciata ad un ragazzino, forse il suo primo amore. Stupidamente pensai che mi sarebbe piaciuto essere stato il primo, che sarebbe stato fantastico averla avuta trepidante e spaventata nella sua prima volta, accompagnarla sul suo lettino da adolescente e guidarla alla scoperta del suo corpo e del mio.
Un suono intermittente mi distrasse da quel pensiero. Mi voltai, c’era qualcosa che non andava, si era svegliata e mi guardava sorridente come sempre, quasi a volermi tranquillizzare, ma c’era qualcosa che non andava. Fu il suo ultimo sorriso, poi sentii la sua mano stringere la mia per poi perdere la forza lentamente, come un liquido che deflussi da un bicchiere. Una mano tiepida dolce, che non poteva più stringere nulla: non c’era più.
Non potevo restare, presto sarebbe arrivato qualcuno, nessuno sapeva di me, dovevo andare. Avrei voluto baciarla, accarezzarla, provare a svegliarla, ma andai via lentamente, osservando come ipnotizzato a capo chino il linoleum grigio dei pavimenti.
Non recuperai l’auto, girai per le vie cittadine, come fossi drogato, non riuscendo a piangere, sentendo solo il vuoto che mi divorava dall’interno, si faceva spazio lentamente dentro di me, consumandomi e portandomi via. Esattamente come il cancro aveva fatto con lei.
Passo dopo passo giunsi alla Stazione, ancora una volta sembrava che il fato volesse prendersi gioco di me, sul tabellone non potè sfuggirmi la partenza di un treno per Venezia.
Non esitai un istante, come guidato da una forza invisibile mi ritrovai a bordo, munito di biglietto, sprofondato in una poltrona, privo di qualunque pensiero, svuotato da ogni forza.
Quando uscii da S. Lucia fui avvolto da un alba fresca e tinta di rosa, ebbi solo un attimo di lucidità provocato probabilmente dall’astinenza di nicotina. Quella sensazione mi spinse ad accendermi una sigaretta che mi fece compagnia nella lunga camminata verso il Casinò.
Mi limitai a guardare l’antico edificio da fuori, con un sorriso amaro disegnato sul viso.
Passai oltre, costeggiando i canali semi deserti, finchè in fondo ad un di essi vidi l’uomo con i capelli impomatati e gli occhi rossi, quel bastardo mi guardava da là sotto.
Non ci pensai un secondo e gli andai incontro, era laggiù immobile con la sua motocicletta ed il ghigno arrogante.
Lo raggiunsi nell’acqua gelida e sporca, con quel figlio di puttana avevamo ancora un conto in sospeso, saremmo stati insieme finche la cose non si fossero risolte, saremmo sati insieme per molto, molto tempo.

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