martedì 10 settembre 2013

LA SOFFITTA di Gianluca Jazz Giannini





Era da tempo che non rientravo in quella che era stata la residenza estiva della mia gioventù. Ricordi, che mi vedevano circondato dalla servitù e da tutta una serie di parenti più o meno stretti che avevano preso l'abitudine di vivacchiare dentro quelle mura vicine a un incantevole mare.
Sono cresciut...o viziato e senza regole. Le mie continue e giovanili marachelle si chiamavano libertà e non potevano pertanto essere raddrizzate che dal tempo. Solo lui sarebbe riuscito, con costanza a piegare quella schiena e quell'anima che veniva relegata in soffitta.
Già, la soffitta, il mio luogo di castigo, di evasione, da li controllavo tutta la casa.
La vedevo stagliarsi davanti a me, quel sottotetto dilaniato come se gli fosse crollato il mondo addosso. Curvo, storto, come se il tempo fosse riuscito a piegare anche lui.
Sapeva di cosa antica, perduta quella casa. Imponente, ma allo stesso tempo ora miseramente fragile, sarebbe bastato un alito di vento un po' più forte per portarsela via, ma i ricordi quelli no, quelli li portavo custoditi con me e nelle pagine del diario giovanile che ero venuto a recuperare dopo tanti anni di forzato esilio.
Era ancora lì, dietro un mattoncino semipieno che solo io sapevo far venire fuori con maestria. Camminavo con cautela su quelle assi ora traballanti che erano state l'esile riparo che mi separava dai vizi di quell'attività familiare estiva.
Sapeva anche di rifugio, era abitudine che mi rintanassi lì per sfuggire alla calura estiva nei giorni in cui ero consegnato a casa e non potevo godermi il mare, era il luogo della mia prima esperienza con l'altro sesso.
Accadde una domenica pomeriggio, lo leggo nel diario.
Domenica 24 agosto
E' passata Claudia, la vicina di casa. Mi fa compagnia sotto il porticato, giacché sono punito, nuovamente, sono agli arresti domiciliari dopo aver messo dei girini nel bicchiere che conteneva la dentiera del nonno. Sorrideva divertita di quante ne combinassi. Si annoiava di quella noia che diventa piacere di scoprire un mondo che va oltre il suo. Così dopo essersi meravigliata di quanto grande fosse la casa. Mi propongo di fargliela conoscere dal posto che conoscevo meglio. Il luogo dove vizi e virtù della mia famiglia rimanevano nascosti da quattro mura, ma non sepolti da un solaio in tavelle tanto esile che tra un asse e l'altro io imparavo le cose che gli adulti non ti dicono.
Camminando in quella soffitta le indico là c'è la stanza del nonno, ora riposa, là c'è la stanza dei miei. Solitamente dormono anche loro, altre volte fanno quelle cose le dico. La guardo mentre si incuriosisce come una gatta per il lardo, si avvicina, vuole sapere, vuole conoscere, dato che lei la mamma non c'è l'ha più. Si sdraia, si distende sul tavolato, il suo occhio si adegua al buio della stanza e osserva tra due assi che le consentono una lama di visuale sulla stanza dei miei. Sorride – lo stanno facendo dice. Vieni guarda anche tu.
-Lo stanno facendo cosa ribatto io.
- L'amore sciocco.
Mi avvicino per vedere di cosa stesse parlando. Mio padre si era avvicinato a mia madre e in quella camera buia che a volte lasciava definire quei corpi solo dalla generosità di quelle forme.
Bisbigliava temendo che potessero sentirci e faceva la cronaca degli avvenimenti - tuo padre le sta toccando qui, disse mimando quei gesti su stessa, e temendo potessi fraintendere diceva anche la parte anatomica, “sul seno”, qui disse prendendo la mia mano e poggiandola su quel particolare ancora acerbo di adolescente. Le stuzzica il capezzolo. Disse toccandosi l'altro sollevandosi di quel tanto affinché io potessi comprendere meglio come. Mimava quei gesti e io la guardavo estasiato. Le ha sollevato il vestito e le sta togliendo le mutande. Lei fece lo stesso, girandosi su stessa e si liberò dell'indumento, lasciandomi vedere per la prima volta il suo sesso. Una peluria rada, quasi inesistente a confronto con quella di mia madre che sembrava un vello fitto e nera che sembrava affogare nell'oscurità. Tuo padre si sta abbassando i pantaloni. Mise la sua mano davanti alla bocca.....è enorme, mi guardò e aspettò. Aspettò che io diventassi suo complice. Mi vergognavo, ma abbassai i miei pantaloncini, e il costume, il mio sesso schizzo fuori eccitato come non me lo ero mai ritrovato. Il mio pube era ancora privo di peli, ma quanto a arnese non mi sembrava di dover sfigurare con quello di mio padre e già questo mi rassicurò. Dritto, lucido, la pelle delicata, quella della prima eccitazione davanti ad una ragazza. Mi sorrise contenta e ritorno a scrutare dentro la feritoia.
Glielo sta mettendo dentro disse, vedo il culo di tuo padre che va avanti e indietro mentre entra dentro tua madre che sta allargando le gambe....chissà come deve essere. Mi guardò con la faccia impaurita della prima volta.
Prometti di non farmi male?.
Prometto. Dissi inconsapevole di ciò che stavo facendo. Era una promessa che non potevo mantenere a stento riusci a trattenere l'urlo di dolore tra le sue labbra. Mi avevi promesso di non farmi male mi rinfacciò. Temevo di aver fatto un danno. Sanguinava, pensavo sarebbe morta lì.
E' normale sciocco la prima volta deve succedere, ora va meglio disse accarezzandomi il volto. Ma non sapeva mentire. Le altre volte andarono meglio, conquistò i segreti della casa.
Scoprì i tradimenti di mio padre con tutti i membri della servitù di sesso femminile e quelli di mia madre con lo zio, e quelli dei miei cugini...
Ma io con lei avevo imparato a fare l'amore, non avevo imparato l'amore. Imparai a desiderarla e a comprendere quanto la amassi quando mio padre, dopo la scomparsa di mia madre abusò di lei, con la ferocia di un orco cattivo. Lo ammazzai di colpi e non si rialzò più da terra, colpito dal suo stesso sangue a cui lui aveva rapito l'anima più dolce della terra.
Dissero i dottori che ero in preda a un raptus. Mi avevano portato via la cosa più bella della terra. L'amore.


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